A me piace andare in bicicletta. Prima di tutto perché mi fa sentire libero nell’universo. E poi perché tonifica il fisico, innalza la resistenza alla fatica e sviluppa pazienza e capacità di sopportazione. Pazienza e capacità di sopportazione, proprio quelle.
Chi pedala sa che quando va per strada incassa, mediamente, un vaffanculo ogni due o tre chilometri, ogni dieci l’augurio di morire di una brutta malattia o di stenti. L’auto ti piomba addosso, spesso lasciandosi precedere da un lancinante urlo del clacson pestato da guidatore con bava alla bocca, Quando ti affianca vedi scattare verso l’alto il suo avambraccio destro: ti sta mandando affanculo.
Le prime volte rispondi a tono, fai roteare i pugni all’indirizzo di quella scatola di lamiera che ti ha oltrepassato sfiorandoti gomiti e cosce. E ora si allontana, soffiandoti addosso i suoi gas velenosi. Col tempo subentra la rassegnazione e non ci si fa neppure più caso.
Lo so, lo so cosa state pensando, voi automobilisti: “I ciclisti vanno troppo a sinistra e ostacolano il traffico”. Non lo ammetterete mai, ma sapete bene che non è così. Quante biciclette incontrate sul vostro cammino, il vostro inesorabile cammino che non tollera rallentamenti? Una ogni dieci, forse ogni venti chilometri. Quanti di questi ciclisti ingombrano davvero la strada? Pochi, perché la maggior parte di noi è abituata a rispettare la fila indiana e a marciare sulla linea di bordo carreggiata. No, voi non protestate rumorosamente contro un pericolo o un intralcio.
Voi vi accanite contro la lentezza.
Voi non accettate di dover alleggerire il piede sull’acceleratore, di vedere rovinata la media oraria dello spostamento da chi si muove meno rapidamente di voi.
Sulla strada, come nella vita, chi non corre abbastanza merita solo insulti. Le biciclette e le reazioni di chi le incontra sulle vie del mondo sono uno specchio del nostro mondo. Quanto tempo perdiamo dietro un uomo che pedala? Quanto ne perdiamo in inutili caffè al bar, davanti al display di un telefono o allo schermo di un televisore? Abbiamo un sacco di tempo da buttare, ma guai se ci costringono a cederlo sulla strada.
L’altro giorno ho letto sui giornali online del bando della Regione Sardegna per la creazione di nuove piste ciclabili. Ho letto, sotto la notizia, anche i commenti di certi automobilisti: avevano gli stessi toni sanguinosi letti tante volte sulla pagina di Salvini, quando il tema sono gli immigrati.
A chi fugge dall’Africa si augura di morire annegato in mare, a chi cavalca una bicicletta di finire stirato sotto un tir. Né gli immigrati né i ciclisti vanno al passo col mondo.
Ieri pedalavo con Gigi e Giuseppe sulla rudimentale pista ciclabile tracciata tra Cannigione e Laconia quando, ad un certo punto, abbiamo trovato ostruita la corsia riservata a noi centauri da un voluminoso Volkswagen Touareg. (Che poi non capirò mai cosa possa entrarci un suv grande ed accessoriato come un bilocale in centro con una tribù berbera del Sahara).
Siamo stati costretti a scansarlo proprio mentre il proprietario tornava al volante, dopo avere dato un’occhiata alla spiaggia sotto la strada.
Non ci siamo lasciati sfuggire l’occasione. Io gli ho fatto notare che quella era una pista ciclabile, lui ha risposto innalzando l’indice al cielo: “Mi sono fermato solo per un minuto”
Ma Giuseppe ha rincarato, mettendone in dubbio educazione e senso civico.
Mi sono sentito come quella volta all’esame di filosofia politica.
Quel puntiglioso gesuita del docente, abituato ad umiliare i candidati, mi contestò una risposta, sostenendo che il “laicismo giuridico” da me evocato esistesse solo nella mia fantasia. E io gli dimostrai, libro alla mano, che era lui a non ricordarla o, forse, a non averla mai saputa. Per una volta era stato il professore stronzo ad arrossire davanti ad uno studente.
Dopo averne incassati migliaia in questi anni, stavolta un vaffanculo lo abbiamo reso. Un esemplare della categoria automobilisti, abituati a considerarsi esclusivi padroni della strada, crivellato da una raffica di vaffanculo per essersi appropriato di un asfalto a lui vietato. È stata una bella soddisfazione.
Nato nel 1971 ad Arzachena ed ivi smisuratamente ingrassato negli anni seguenti, figlio di camionista e casalinga. Titoli appesi alle pareti: laurea in Lettere moderne all'Università di Sassari, iscrizione all'albo dei giornalisti professionisti, guida nazionale di mountain bike, presidente della Asd Smeraldabike, direttore della testata Sardegnablogger. È stato redattore di tre diversi quotidiani sardi: dal primo è stato licenziato, gli altri due sono falliti. Nel novembre del 2014 è uscito il suo primo romanzo, "Cosa conta".
Renatino e i misteri di Roma (di Giampaolo Cassitta)
Elio e le storie disattese (di Francesco Giorgioni)
Un rider non si guarda in faccia (di Cosimo Filigheddu)
Ciao a Franco dei “ricchi e poveri”. (di Giampaolo Cassitta)
La musica che gira intorno all’Ucraina. (di Giampaolo Cassitta)
22 aprile 1945: nasce Demetrio Stratos: la voce dell’anima. (di Giampaolo Cassitta)
Ha vinto la musica (di Giampaolo Cassitta)
Sanremo non esiste (di Francesco Giorgioni)
Pacifisti e pacifinti (di Simone Floris)
Lo specchietto (di Salvatore Basile)
Da San Gavino a San Cristoforo, quando colonizzammo il Villaggio Verde. Ovvero il trasloco (di Sergio Carta)
Se riesco a buscare 5000 Lire ci vediamo allo Zoom, ovvero le pomeridiane in discoteca degli anni’80. (di Sergio Carta)
Papa Fazio (di Cosimo Filigheddu)
Inserisci il tuo indirizzo e-mail per iscriverti a questo blog, e ricevere via e-mail le notifiche di nuovi post.
Unisciti a 18.021 altri iscritti
Indirizzo e-mail
Iscriviti
sardegnablogger ©2014 created by XabyArt - graphic & web design