Per capire questa Macchina del Tempo che se ne gira indietro indietro sino all’Emiciclo Garibaldi, bisogna ricordare che Sassari aveva quattro porte. Una è Porta Sant’Antonio, che era la più importante perché era quella verso Porto Torres, la città che ci ha generati anche se poi loro si sono ridotti a ben poca cosa, sussinchi d’ischogliu praticamente, mentre noi siamo diventati un’importante metropoli e la Regione ci tratta meglio di Cagliari. Dalla parte opposta, cammina cammina, c’era la Porta di Castello, che si apriva verso Cagliari e infatti i sassaresi andavano lì a pisciare, tradizione che si è conservata anche quando alla porta si sono sostituiti i Portici. Crispo e Bargone dico. E la guardia municipale Paperino metteva subito la multa a chi solo avvicinava la mano alla braghetta con brutte intenzioni. Perché c’era questo divieto di pisciare in strada e ai Portici e all’Ospedale di piazza Fiume avevano messo i mezzi anelli di ferro murati agli angoli con certi spunzoni a torciglione che dovevano scoraggiare bambini e ubriachi. Gli ubriachi non so, ma i bambini davanti a questi ostacoli invalicabili formavano lunghe file e si comprimevano i minuscoli minciacuri ballando da un piede all’altro e gli ultimi urlavano dal fondo a quello che aveva appena valicato l’ostacolo invalicabile -Aiò, chi mi soggu piscendi! Disperati come se non ci fosse in tutta Sassari altro luogo pubblico o privato dove farla. E pensare che ancora c’erano i vespasiani e avrebbero potuto ordinatamente farla lì. Io l’unico vespasiano che usavo volentieri era quello di via Canopolo, appendice residua dell’ormai disciolto casino di via Esperson, un pisciatoio istituzionale sistemato lì dallo Stato per consentire ai clienti dell’altra sua istituzione, il casino cioè, di svuotarsi la buscica dopo essersi svuotati la cugliupa. E pensare che qualcuno dice che prima della Merlin erano bei tempi. Boh! Comunque io, che abitavo lì vicino, quel buco alla turca con la lamiera intorno lo usavo soltanto perché babbo mi aveva vietato di usarlo che diceva che se soltanto ci passavi vicino ti prendevi tutte le malattie. Lui era medico e anche bravo. E quindi non penso che avesse davvero paura che con una semplice pisciata mi prendessi le creste di gallo. Quindi secondo me, a pensarci ora, doveva essere una specie di questione morale. Magari gli faceva semplicemente l’ascamo. Comunque, vedi, il meccanismo era questo: se volevi che in un posto i bambini non ci pisciavano dovevi dire che era fatto apposta per pisciarci. Però, per tornare alle porte di Sassari, ai lati c’era da una parte la Porta di Rosello che regolava il traffico con Sorso. Lì si andava per sentire l’ultima “E no ti l’aggiu ditta chissa di chissu sussincu ca…” e i sennoresi vendevano le funi ai sussinchi che volevano rubare la fontana omonima. E dall’altra parte la Porta Utzeri che si apriva verso Santa Maria e San Pietro, dove c’erano tutte le vigne dei frati e dei preti e anche delle suore e se andavi proprio lì a rubare l’uva invece di impiccarti ti dicevano che eri comunista e ti mandavano al rogo. In epoca più prossima si sono aggiunte altre due porte in entrata e in uscita: la Stazione e l’Emiciclo. Che poi dico Emiciclo perché qui abbiamo poco spazio altrimenti bisognerebbe aggiungere una O e scrivere correttamente Emicicolo. L’Emiciclo, che ha conosciuto i suoi anni splendidi con la Sita e la Pani e tutte le altre corriere del trasporto gommato sardo, è stato sgarrettato dal Comune venti o trent’anni fa con tortuose giustificazioni di traffico intasato e vaghe promesse di stazioni per il gommato dalle parti di Padre Zirano, che non è quello che vendeva le paste vicino a Bagella e all’Unica all’angolo con il Corso. Questo padre Zirano era un religioso scorticato vivo dai turchi di Algeri nel Seicento, che ora è un fantasimu e ne esce di notte a tutti gli extracomunitari magrebini delle Conce e di Santa Maria per vendicarsi facendoli cagare dalla paura. Ai tempi dell’Emiciclo c’era solo il busto di Mazzini anche se si chiamava Emiciclo Garibaldi e quando hanno aggiunto anche il busto di Garibaldi ci hanno rovinato a tutti la battuta “Ma come, si chiama Garibaldi e c’è Mazzini!” che era solo dal periodo giudicale che la dicevamo, quando l’Apostolo del Risorgimento e l’Eroe dei due Mondi non erano neppure nella sacchetta dei rispettivi babbi. Peccato per la battuta, però. Sono stati inoltre rimossi gli abusivi, cioè le 600 multiple dove ti caricavano in venti a viaggio per portarti per sole sessanta lire, dieci lire in più del biglietto del tram (anzi, baas si deve dire, perché il tram è solo quello con le rotaie, ignoranti!), per portarti dicevo a Platamona, fermata fissa alla Rotonda. Pure se dovevi andare a Balai o all’Iride. Cazzi tuoi. E hanno tolto anche le carrozzelle con i cavalli che ancora qualcuno le usava. Queste carrozzelle erano una delle due attrattive dei fanciulli che provenivano dai quartieri del centro storico. La prima di queste attrattive erano le signore dallo scialle nero e dalle lunghe faldhetti del medesimo colore che strisciavano per terra le quali scendevano dalla corriera dopo viaggi lunghi e perigliosi, quando la Carlo Felice o la Castesardo-Lu Bagnu-Sorso-Sassari avevano più curve della cassiera della gelateria Toscana ai tempi che la frequentavo io. La gelateria, non la cassiera. Questi fanciulli, che per fortuna io non ci stavo con loro perché ero uno perbene che pensava a studiare e a essere la consolazione di mamma e babbo, questi ragazzini dunque tenevano d’occhio le signore nere che scendevano dalla corriera cu la faldhetta a battigunnàdu, cioè con la gonna tutta piegata davanti e tenuta stretta tra le cosce. Postura che, a dispetto dei visi alteri e degli occhi imperscrutabili, rivolti al massimo verso qualche vetrina, rivelava le vere intenzioni di queste matriarche. Infatti questi fanciulli porcaccioni che io e i miei amici disapprovavamo severamente alle volte informando i loro genitori delle loro malefatte, questi fanciulli seguivano le signore con la faldhetta a battigunnàdu che distrattamente si addentravano nei giardini pubblici, sino alla macchia di siepi ed erba varia prima del Jolly Hotel. E qui, restando in piedi e mantenendo lo stesso viso altero e lo sguardo rivolto all’infinito, si limitavano a lasciare cadere i bordi della gonna nella loro posizione naturale, verso il suolo. E quando un impercettibile movimento di labbra e di ciglia rivelava in quelle austere donne un raggiunto godimento, un sollievo agognato in ore e ore di viaggio, un tremore di pelle che avvertivano soltanto i più esperti di quei fanciulli a noi così estranei, ebbene, allora se tu guardavi in basso vedevi un rivolo che dalla sorgente misteriosa sotto la faldhetta si allungava sulla polvere dei giardini. Allora la signora si ripassava per un attimo la faldhetta a battigunnàdu (devo spiegare, allora quei fanciulli avevano un’idea molto sommaria dell’anatomia femminile, ancora non esistevano i siti porno per le scuole elementari, e quindi soltanto alle scuole medie hanno realizzato che quel rapido gesto era l’equipollente di un bidet), comunque, la signora si ripassava rapidamente la gonna a battigunnàdu, poi la lasciava ricadere e si riavviava impettita verso la calca della città, ignorando i lazzi dei piccoli maleducati che rivelavano la loro presenza dietro le siepi con sapidi “Ebbè, pisciaddu hai?”. Delinquenti! Che poi ce n’erano alcuni, mi vergogno per loro, chissà che fine hanno fatto, i quali maltrattavano i cavalli delle carrozzelle, pensate un po’! Succedeva infatti che durante le lunghe attese di clienti ai lati del viale che dall’Emiciclo conduce in viale Italia, quei cavalli per ingannare il tempo pensassero: pensavano in silenzio immaginando chissà quali avventure. Chi sognava di essere il cavallo di Pecos Bill, chi uno dei cavalli della carica di Balaklava, chi di essere il cavallo di Raimondo d’Inzeo che aveva appena preso l’oro alle Olimpiadi di Roma, insomma, cose così. Ce n’erano però anche alcuni che, sempre per ingannare il tempo, facevano pensieri misteriosi che provocavano loro un inturgidimento di una parte che quando tu passavi vicino al cavallo in condizioni di normalità neppure te ne accorgevi che ce l’aveva ma quando era in quelle condizioni ti chiedevi “cazzu, ma non li dazi incomudu candu isthriscia in terra?”. Insomma, era una cosa grande. Ebbene, quei fanciulli che ora devono essere tutti finiti in chissà quale galera oppure impiccati, si appostavano con il tirelastico (o tiralastico, fate voi) che si faceva con fettucce di gomma ricavate da pneumatici di bici o di moto non più riparabili ottenuti in dono da un’officina meccanica di via Arborea, Dio lo abbia in gloria, una volta ci regalò anche una serie di ferri a V tolti da un trattore rottamato con i quali ottenemmo delle forcelle migliori di quelle di legno. Quei delinquenti, insomma, si appostavano e sparavano mirando all’idrante. Quando riuscivano a darlo con il sasso, l’equino padrone dell’aspersorio manifestava il proprio disappunto assumendo la posizione araldica del cavallo rampante, mentre il vetturino, ignorante, anziché sentirsi gratificato da questa attribuzione nobiliare, ci rimproverava paternamente, cioè, non “ci”, rimproverava paternamente quei fanciulli con i quali noi non avevamo a che fare, e diceva loro con voce severa ma amorevole: “La bagassa ca t’a criaddu, si t’acciappu ti lo fozzu magnà chissu cazzu ti tirarasthigu!”. E allora i fanciulli si allontanavano con un senso di completezza e di dovere compiuto, lieti di avere dato un senso anche a quella giornata. A quei tempi, però, Sassari era più città di adesso. Gli ospiti dei paesi arrivavano in pieno centro e non andavano a Predda Niedda. In due sgambate potevano scegliere tra gli Upim vecchio e nuovo avviandosi verso via Brigata Sassari. O la Standa prendendo viale Italia. O la miriade di bei negozi e di locali pubblici fioriti intorno a quell’approdo di corriere e che facevano fiorire tutta Sassari. Oppure salire in via Carlo Alberto e provare l’emozione della passeggiata in piazza d’Italia quasi come fossero uguali a noi cittadini. Persino quelli di Porto Torres e di Sorso che si mimetizzavano meglio perché parlano la nostra stessa lingua, anche se quelli di Sorso li sgamavano subito per via dell’accento inglese. Però, scherzi a parte, non a caso il momento più solennemente e sinceramente cerimoniale della Cavalcata Sarda era proprio all’Emiciclo, perché la manifestazione simbolo della centralità di Sassari nel territorio si svolgeva nel luogo simbolo della sua magnifica accoglienza: quella mezza piazza tonda dove ogni giorno, incessantemente, a frotte, arrivavano i nostri ospiti. E noi gli dicevamo “benvenuti”, allora. Ora, invece, quando li incrociamo a Città Mercato facciamo finta di non conoscerli perché come tutti quelli che hanno un bel passato ci vergogniamo un poco del nostro presente.
Nato nel 1951, ottobre (bilancia, ma come tutti quelli della bilancia non crede nell'oroscopo). Giornalista dal 1973. Scrive anche altra roba. Ma gratis, quindi non vale.
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