Mi dispiace non potere parlare di tutta la malinconica dolcezza contenuta nell’ultima pagina del romanzo di Gianni Caria “Il presidente addormentato”, appena uscito da Bibliotheka (14 euro). Non si può perché lo spoileraggio, su un piano etico ampiamente condiviso, è reato. E lo scrittore Gianni Caria, capo della Procura della Repubblica di Sassari, si intende sia di libri sia di reati. Eppure non dovrebbe rovinare la sorpresa conoscere il finale di un plot che, detto nella sua raffigurazione essenziale, appare più impressionistico che icasticamente narrativo, una trama senza troppi avvenimenti. Che errore. Pur essendo un romanzo che leggeresti per il gusto unico di leggere, tale è la finezza formale di questa scrittura sempre più strutturata e completa di Caria, ti accorgi che pure la maglia narrativa è tutt’altro che esile quanto la farebbe apparire la seguente sintesi: Anita Bertoli, la prima presidente donna della Repubblica italiana, ha un malore mentre esamina la lista dei ministri di un nuovo governo; sopravvive in coma vigile in un ospedale, vegliata da un corazziere, mentre i pensieri dei due, pensieri esistenziali, autoreferenti, si intrecciano nell’immobilità apparente dei corpi, l’uno malato l’altro soggetto alla disciplina del guardiano nobilmente congelato nella sua posizione più onorifica che utile. E l’Italia si paralizza a sua volta, attendendo l’esito del coma perché la vita politica e amministrativa possa riprendere. Due corpi pensanti, ecco la trama. Ma non lasciatevi ingannare da questa apparente povertà di storia. E’ una storia ricchissima di avvenimenti, in realtà, persino di colpi di scena condotti in un abile gioco di flashback che dal presente al passato e dal passato al presente, in un continuo rimando costruiscono pagina dopo pagina una vicenda lineare che attrae il lettore come un’ordinata successione di eventi. Anche l’opera prima di Caria, “La badante di Bucarest”, che nel 2012 diventò un vero caso letterario, era libro di finissima scrittura. Ma questo è un romanzo in cui la forma squisita primeggia, basterebbe soltanto quella a farne un page turner. Gli espedienti stilistici sono notevoli. Tra i tanti, l’assenza descrittiva di una circostanza che crea una sorta di non visto, una suggestione che regala a lettore l’immagine non detta. Un po’ come l’uso degli spazi vuoti nella pittura o del bianco nella più elegante grafica contribuiscono a creare i capolavori. A esempio l’ospedale non detto, non raccontato, non esplorato dove il corazziere vigila sulla presidente (lui, per disciplina anche lessicale, pensa e dice “il presidente” perché un presidente è “il” presidente e basta). Penso all’ospedale surreale dei “Sette piani” di Dino Buzzati, o a quello della “Cronaca familiare” di Vasco Pratolini, contenitori sfumati di vite incrociate in reciproche scoperte sulle rive della morte. Un ospedale, quello raccontato da Caria, dove pochi accenni bastano per consentire al lettore di costruirsene una propria immagine, per dare forma all’ambiente misterioso che contiene sia il corpo del corazziere, che ripercorre la propria vita così personale, sia quello della presidente che fa lo stesso per la sua, così pubblica. Eppure entrambe così importanti, così emblematiche dei grandi motori dell’umanità, lo spirito di servizio, il ruolo della classe dirigente, l’etica della politica e la povertà della politica. Il dovere, per dirne uno, sul quale riflette la presidente che prima di essere abbattuta dal malore con il capo sulla scrivania, aveva appena depennato dei nomi dalla lista di ministri che le era stata proposta; e riflette il corazziere, fermo nella “posizione in piedi in osservazione vigile al vetro”. Il vetro che lo separa dal letto della presidente addormentata: “Il dovere è un passaparola. Te lo dico io cos’è, poi tu lo dici agli altri e gli altri lo dicono in giro, di generazione in generazione. Qualche volta la cosa si inceppa, qualche volta ciò che si dice alla fine è diverso da quello detto all’inizio”. E sempre sul piano della forma, è sottilmente affascinante come i due pensieri cambino stile nel rimando dall’uno all’altro. Penseresti a un corretto ed elevato linguaggio da parte della presidente, a una più circoscritta scelta lessicale da parte del militare. E invece no. Sono sommessi, nella scrittura di Caria, i segni del passaggio tra due cornici di vita e di cultura così diverse: differenze impercettibili che pure portano al cambio di soggetto in maniera così evidente che quasi non appare necessario definire il narrante. Si capisce da come parla. Anzi, da come pensa. A esempio la presidente, sul rapporto con il suo importantissimo padre, chissà, forse anaffettivo: ne vede la foto rovesciata sul tavolo dove la testa giace riversa dopo il malore, e pensa a quell’inusitato articolo contro l’aborto, contro il suo partito e contro sua figlia che invece difendeva la libertà di scelta delle donne: “L’hai fatto per me o contro di me?, chiedo alla faccia rovesciata di mio padre. Ti sei immolato, hai preso insulti e subito tirate di giacchetta solo per me? Allora ero ferita, ora solo stupita. Una forma di amore, una strana forma di amore per dirmi che pensavi a me. Un contorto e buio cunicolo per comunicare con me, l’unica maniera per parlarmi attraverso l’inchiostro sbafato della stampa di un giornale”. Come andranno a finire, o a continuare, queste due esistenze che si specchiano sul vetro di un reparto di rianimazione? E l’Italia che aspetta, quando riprenderà a muoversi? Suscita prepotenti riflessioni, questo libro: non soltanto legate a sé ma a una condizione nuova in cui il mondo sembra trovarsi. E un libro serve soprattutto a questo: ragionare, riesaminare gli eventi propri e quelli collettivi in momenti in cui questo esercizio sembra fare paura alle nuove classi dirigenti del pianeta. Il finale del libro, però, qui non si può anticipare. Per aiutarvi posso soltanto dirvi che il potere è un po’ come quel gabbiano che la presidente, quando già avverte i sintomi dell’imminente malore, vede poggiarsi sul davanzale: “Si sposta lateralmente, con aria scocciata, poi decide che non è il caso e spicca un volo pesante e indolente fino al davanzale un piano più sotto”.
Nato nel 1951, ottobre (bilancia, ma come tutti quelli della bilancia non crede nell'oroscopo). Giornalista dal 1973. Scrive anche altra roba. Ma gratis, quindi non vale.
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