FIORENZO CATERINI –
Per introdurre una riflessione sulla vicenda dell’inceneritore di Tossilo, parto dall’ultimo articolo di Marco Zurru sull’incomunicabilità https://www.sardegnablogger.it/quello-che-i-sardi-non-dicono/ . In questa come in altre vicende che riguardano l’ambiente e la salute dei cittadini sardi, la spaccatura, l’incomunicabilità delle parti è stata totale, con reciproche accuse, insulti e persino criminalizzazione dell’avversario.
Credo invece che ci siano i margini per fare un ragionamento sulla questione costruttivo, e motivare con logica a cognizioni le ragioni del NO a questo impianto.
Per motivare le ragioni del NO, vorrei però che si ragionasse onestamente, senza nessuna ipocrisia.
So bene che funziona di più uno slogan urlato che un ragionamento, ma credo che già basti quello che io definisco “inquinamento a orologeria”, quell’inquinamento che c’è sempre stato ma che spunta fuori a seconda della giunta regionale o del politico più o meno antipatico, magari utilizzando documenti riciclati e vecchi di anni.
Intanto non si sfugge: allo stato attuale, o si fanno le discariche, o si fanno gli inceneritori.
Gli altri paesi europei, gli stessi che molti ammirano per la loro avanzata “civiltà”, hanno optato per gli inceneritori.
La Svizzera smaltisce tutti i suoi rifiuti con gli inceneritori, la Danimarca una gran parte, mentre la sola Olanda era capace di incenerire più rifiuti da sola che l’intera Italia la quale, a causa soprattutto dell’avverso atteggiamento della popolazione, è agli ultimi posti tra i paesi maggiormente industrializzati del continente, fatta eccezione per la Gran Bretagna che, però, carica comodamente sulle navi i rifiuti e li porta in Norvegia, dove pagano per averli.
Infatti la generazione degli inceneritori che producono energia, i cosiddetti impropriamente “termovalorizzatori”, sono diventati un vero business sfruttati nei paesi scandinavi e in Germania, dove smaltiscono anche i rifiuti tossici residui.
Germania e Francia smaltiscono anch’essi i rifiuti con gli inceneritori in misura da 3 a 4 volte che l’Italia, sottoposta a dure critiche da parte dell’Unione Europea e, a suo tempo, da parte di diversi movimenti ambientalisti per questo suo ritardo e per l’utilizzo ancora della discarica in maniera preponderante.
L’Italia sta cercando di recuperare il terreno perduto con un tipico artificio all’Italiana, un pasticcio oserei dire, che prevede l’inserimento di questo metodo di smaltimento tra le fonti rinnovabili, e quindi con la previsione di sostanziosi incentivi, dai famigerati certificati verdi agli incentivi del CP6, la direttiva del Comitato Interministeriale che prevede una riserva privilegiata per l’energia prodotta dal queste fonti.
Pensate dunque che un sistema di smaltimento di rifiuti e di produzione secondaria di energia, considerato da più parti come altamente pericoloso per la natura umana, in Italia è ritenuto virtuoso. E’ chiaro che si cerca con questo metodo di risolvere alcune gravi emergenze, come quella campana di alcuni anni fa.
Tuttavia anche i termovalorizzatori di nuova generazione, concepiti con tecnologie pensate per abbattere il più possibile gli effetti pericolosi per la salute, presentano dei limiti, perché c’è molta difficoltà ad abbattere le particelle più piccole dei fumi, che sono anche quelle più pericolose per la salute.
E tuttavia vediamo che grandi termovalorizzatori si trovano in città come Berlino, Vienna, Parigi, Copenaghen, Brescia, in mezzo alle abitazioni.
Tutti assassini dunque, tutti criminali?
Se osserviamo la geografia degli inceneritori, noteremo che essi si concentrano nelle zone più industrializzate e nello stesso tempo più densamente popolate d’Europa, che sono anche le più ricche, come l’Olanda e la Pianura Padana. In pratica è lecito pensare che lo spazio limitato di questi luoghi abbia provocato una scelta obbligata a sfavore delle ingombranti discariche. Inoltre, verrebbe anche da pensare, che una lunga convivenza con le industrie abbia prodotto un certa sindrome da “abbiamo fatto 30 facciamo 31”, inquinamento più, inquinamento meno, l’importante è perseguire un modello di sviluppo che qualche Ferrari e qualche Porsche consente di farla sfrecciare per le strade.
Come tutti sanno, l’Italia è l’unico paese europeo che ha abolito il nucleare, e ora si trova con la possibilità di utilizzare a scopo energetico i rifiuti di cui abbonda grazie all’alta densità di popolazione, e dunque di recuperare il tempo perduto ed affiancarsi agli altri paesi del Nord-Europa. Tuttavia questa rincorsa rischia di diventare una battaglia di retroguardia, perché in quegli stessi paesi del “first business”, ora inizia a formarsi una coscienza ambientalista che contesta la presenza degli inceneritori. Infatti in Olanda, in Germania, in Norvegia, in Danimarca sta prendendo corpo l’idea che convenga differenziare i metodi di smaltimento dei rifiuti, puntando soprattutto all’educazione civica e ad impianti di nuova generazione per il riciclo dei rifiuti urbani.
L’Italia rischia di raggiungere il traguardo quando la gara si è spostata da un’altra parte, su altri obbiettivi.
Ma veniamo a Tossilo.
Nonostante qualche semplificazione, la Sardegna non è affatto tutta inquinata e anzi, a differenza della ricca Pianura Padana, c’è qualche Ferrari in meno ma un po’ di aria pulita e di verde in più, al netto delle zone che sappiamo.
Ora, se così non fosse, tanto vale proseguire con l’inceneritore.
Invece questo impianto, o più correttamente, il suo potenziamento, va ad intercettare un’area dove vi sono centinaia di piccole aziende agricole e pastorali che peraltro, in questo momento, vivono una congiuntura economica favorevolissima, grazie alla parità del cambio col dollaro, al costo favorevole del credito, al prezzo del latte, alla disponibilità di terreni.
Una possibilità da non perdere. Un po’ cinicamente verrebbe da dire che la Sardegna, al netto dei suicidi mediatici e della nostra vocazione a darci la zappa sui piedi, ha la possibilità in questa fase storica di mostrare il suo volto produttivo più bello e pulito, a discapito di zone d’Italia e d’Europa che, purtroppo per loro e non ce ne vogliano, non possono offrire la stessa salubrità.
Per cui il termovalorizzatore di Tossilo andrebbe posto certamente in stand by, pensando ragionevolmente a progettare un moderno impianto di smaltimento dei rifiuti basato sul loro riciclo.
Su questo versante si sconta il limite più grande del business dei termovalorizzatori, limite di cui nei paesi europei dove si utilizza maggiormente questo sistema ci si è imbattuti. Ovvero il principio che i rifiuti, diventando “business”, provochino una caduta di tensione educativa e civica nella popolazione, con il risultato di un minore impegno nella raccolta differenziata e nel riciclo.
Ma vi sono anche altre tecnologie all’avanguardia, che vengono sperimentate anche nei centri di ricerche della Regione Sardegna, e riguardano la possibilità di produrre vantaggiosamente biogas dalla frazione organica dei rifiuti, con un notevole abbattimento del volume complessivo degli stessi. Una tecnologia ancora in studio ma che dovrebbe essere certamente meno inquinante dell’inceneritore.
La Sardegna, insomma, è una terra dove l’industrializzazione è localizzata in ambiti ben delimitati, e dove la densità abitativa è scarsa, dove abbondano gli spazi, anche marginali.
Ma allora, cosa ci costringe ad utilizzare un sistema come quello della termovalorizzazione dei rifiuti, capace di nuocere al bene più prezioso che abbiamo, la salute, e di pregiudicare l’economia di un intero territorio?
Per due motivi, credo.
Il primo motivo è dovuto a questi stramaledetti incentivi. Pensati per nobili scopi, per diminuire la dipendenza dalle fonti fossili, essi sono diventati un rischio di quello che, a proposito delle biomasse, ho definito di “cannibalizzazione” del bene. Il rischio, ovvero, che a causa della spinta prodotta dai questi incentivi pubblici, si vada oltre le reali possibilità della risorsa, e invece di riciclare i rifiuti, i prodotti di scarto, venga aggredito il bene stesso, il capitale produttivo, il verde, i terreni, l’aria.
Il secondo motivo è insito al modello di sviluppo dell’isola. Nella Padania, nella Ruhr, nel Benelux, nell’Inghilterra, nella Slesia, si persegue un modello di sviluppo economico che assume i contorni di una totale invasività dell’industria sulla vita delle persone, ne detta i tempi di vita, i ritmi quotidiani, la ricchezza economica e, in un certo senso, a giudicare da certi atteggiamenti di intolleranza e di disagio crescenti, anche la miseria umana. La spopolata Sardegna, per contro, fin dagli albori del “sistema mondo”, è entrata dentro un meccanismo economico perverso che la vede, principalmente, come produttore di materie prime. Ho già spiegato in altri articoli e non mi dilungo, che questo sentiero non è facile da abiurare, perché crea una forma sottile di dipendenza, dalla quale, però, sarebbe bene liberarsi.
Anche perché questa ultima materia prima è rappresentata dal territorio stesso, grazie alla bassa densità di popolazione.
Onestamente io non so quali siano i margini amministrativi di manovra di chi si trova a decidere per questa operazione, ovvero se è possibile, legittimamente, bloccare questo potenziamento.
Tuttavia ritengo che questa è forse l’ultima possibilità che abbiamo per decidere se diventare produttori di prodotti agricoli di qualità o se produrre energia per la speculazione dei soliti noti.
Insomma, è forse giunto il momento di decidere se essere artefici di una economia fondata sulle naturali vocazioni dell’isola o restare, nei fatti, una eterna colonia.
Fiorenzo Caterini, cagliaritano classe '65. Scrittore, antropologo e ambientalista, è studioso di storia, natura e cultura della Sardegna. Ispettore del Corpo Forestale, escursionista e amante degli sport all'aria aperta (è stato più volte campione sardo di triathlon), è contro ogni forma di etnocentrismo e barriera culturale. Ha scritto "Colpi di Scure e Sensi di Colpa", sulla storia del disboscamento della Sardegna, e "La Mano Destra della Storia", sul problema storiografico sardo. Il suo ultimo libro è invece un romanzo a sfondo neuroscientifico, "La notte in fondo al mare".
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