L’altro giorno sono stato invitato a Vallermosa per presentare il mio libro sul disboscamento della Sardegna, da un locale comitato che si sta battendo per impedire la costruzione di una centrale termodinamica nelle campagne del paese. Erano presenti i rappresentati di diversi comitati sparsi per l’Isola. In tutta la Sardegna, infatti, stanno nascendo dei comitati che si battono localmente contro la nascita di impianti di produzione di energia cosiddetta rinnovabile. In un mondo che semplifica i messaggi, tagliando di netto in due l’etica del fenomeno, buono o cattivo, giusto o sbagliato, risulta facile tacciare questi comitati di integralismo ambientale, o di essere contro lo sviluppo sostenibile, o anche con il moderno e neologico acronimo NIMB, che descrive l’egoismo di chi non vuole avere le seccature vicino a casa ma altrove. Essere contro le energie rinnovabili, infatti, appare a prima vista piuttosto sciocco, proprio in questo momento dove si devastano interi stati e muoiono migliaia di persone a causa delle guerre scatenate per le risorse, e per il petrolio in particolare. Ma in realtà la posizione dei comitati è un po’ più complessa. In Sardegna, in questi ultimi anni, grazie anche ad un sistema di incentivi pubblici, si sta affacciando una frenetica fibrillazione da parte del mercato produttore di energia. Sembra di assistere davvero all’epoca del disboscamento, quando gli impresari d’oltremare si affollavano nell’isola a caccia di facili affari sui boschi sardi. Sono enti pubblici e privati che si occupano delle varie forme di produzione energetica, dall’eolico al fotovoltaico al termodinamico, alle biomasse, al geotermico, e persino alla sperimentazione sul vecchio carbone fossile e alle trivellazioni esplorative profonde. Tutti verdi, green, naturalmente. Persino la gigantesca raffineria della Saras di Sarroch riesce a convertire una parte dei propri sottoprodotti in un ciclo produttivo che poi viene assimilato alle risorse rinnovabili, riuscendo pertanto a percepire delle agevolazioni “verdi”. Ora tutta questa fibrillazione ha fatto dire al Ministro dell’Ambiente che la Sardegna diventerà la “showroom” dell’energia verde, dell’energia, quella alternativa e pulita. Uno spettacolo. Ma se vi fosse in Sardegna un programma energetico razionale ed equilibrato, con delle agevolazioni anche per le industrie sarde e per i cittadini, che impianti razionalmente delle fonti di produzione di energia elettrica, in siti idonei, penso alle zone industriali, alle cave abbandonate, e se venissero riconvertite le industrie per la produzione di energie rinnovabili, nessuno direbbe niente. Ma a quanto pare non sembra essere così. Il termodinamico di Vallermosa, ad esempio, va a situarsi in una vasta area a vocazione agricola e pastorale, sottraendo perciò prezioso terreno alle campagne. Questa rincorsa folle alla produzione di energia, considerando anche che la Sardegna è ampiamente autosufficiente, è cieca. Non guarda al territorio dove va a sovrapporsi, basti pensare che le famose trivellazioni del progetto Arborea vanno a insistere proprio nelle vicinanze della nota azienda agricola omonima. L’industria di Porto Torres, che si riconverte alla produzione di biomassa, non sarebbe affatto male, se non vi fosse, implicita, una trasformazione delle campagne sarde in senso monoculturale per la produzione di specie vegetali a rapido accrescimento. Studiando la questione mi è capitato di leggere una cosa agghiacciante. Se il cardo sardo non dovesse bastare, l’industria funzionerebbe con l’olio di palma del sud-est asiatico, lo stesso che sta desertificando quelle zone. Da uno sfruttamento ad un altro, solo un po’ più lontano. Quindi la caratteristica di questa invasione è sempre la stessa, il consumo del territorio. Che è la caratteristica che nella storia della Sardegna ha sempre rappresentato la sua maledizione e la sua mancata conversione, da terra gestita da forze esogene, con modelli di sviluppo importati di stampo coloniale, a terra con una economia integrata, sviluppata, diversificata. Il consumo del territorio, dal granaio di Roma al disboscamento, dalle servitù militari all’edilizia selvaggia, dalle miniere all’industria pesante, dal deposito delle scorie alla produzione di energia, ha rappresentato la costante della storia sarda dalla quale non si è mai riusciti ad uscirne fuori. La Sardegna, con una densità di popolazione minore che altrove, resta legata al mercato mondiale, in posizione suddita, e quello che riesce a dare al mondo, è il suo territorio. Forse vorrebbe dare altro, paesaggio, turismo, cultura, agricoltura di qualità e prodotti gastronomici. Vorrebbe. Ma qui sta il problema. Perché quando un paese si struttura dentro un sistema mondo in quella posizione, fa molta fatica poi a riconvertire la propria economia, occorre una grande consapevolezza. Spesso la colpa la si dà tutta ai politici, ma il problema è anche culturale. Se venisse un politico che esortasse ad un cambio sociale ed economico, che ci facesse uscire dalla sudditanza con una visione strategica, non durerebbe molto, verrebbe fatto fuori. Verrebbe fatto fuori subito perché la cosa comporterebbe, inizialmente, dei sacrifici che non tutti sarebbero in grado di sopportare e di capire. Mi si passi l’ironia: se verrebbe un politico a dire che le aree agricole devono essere aree agricole e non, di fatto, edificabili come lo sono ora, che se no muore l’agricoltura e con essa la speranza produttiva della regione, verrebbe certamente fatto fuori. Ecco. Perché per la gente che vive la quotidianità dei problemi sulla pelle, della disoccupazione, delle bollette da pagare e dello studio dei figli, è meglio sperare di vendere un terreno mascheratamene edificabile ad un tedesco, o affittarlo per il termodinamico, che pensare di impiantare una azienda agricola che produca quei beni di qualità che si vanno perdendosi. Chiaro che la Regione si trova ad un bivio. Proseguire dentro l’attuale sistema di sudditanza economica, oppure provare ad invertire la società sarda, magari incentivando con molta forza le produzioni agricole di qualità, penso alla zafferano, al vino, agli ortaggi; incentivando il paesaggio, la cultura sarda, accompagnando però il tutto con una comunicazione etica, una promozione culturale della conversione, di modo che venga capita da ampi strati sociali? Niente di più convincente ci sarebbe che la marmellata di pere camusine di Vallermosa sulla ricotta di capra e il pane pistoccu che ho assaggiato quel giorno. Ma forse siamo destinato ad altro, ad un futuro di cibi finti e di aria intossicata, e di sudditanza perpetua dal mercato mondiale.
Fiorenzo Caterini, cagliaritano classe '65. Scrittore, antropologo e ambientalista, è studioso di storia, natura e cultura della Sardegna. Ispettore del Corpo Forestale, escursionista e amante degli sport all'aria aperta (è stato più volte campione sardo di triathlon), è contro ogni forma di etnocentrismo e barriera culturale. Ha scritto "Colpi di Scure e Sensi di Colpa", sulla storia del disboscamento della Sardegna, e "La Mano Destra della Storia", sul problema storiografico sardo. Il suo ultimo libro è invece un romanzo a sfondo neuroscientifico, "La notte in fondo al mare".
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