Lo sapete. Poche settimane fa è uscito nelle sale il nuovo “It” di Stephen King e tutti associamo film e libro alla figura di Pennywise il clown. Ma non è che il terrore per i pagliacci l’ha inventata King. Esiste una vera e propria fobia chiamata coulrofobia che comprende il ribrezzo spropositato per giocolieri, trampolieri e pagliacci. Chi ne è immune non arriva a comprendere appieno.
Che i clown non siano dei piacevoli amiconi, credo che un po’ tutti lo pensiamo. Quella maschera imperturbabile di cerone, inquieta non pochi. Si ipotizza che l’inespressività, l’imprevedibilità nelle azioni del pagliaccio, il falso sorriso, stiano alla base del disagio provato da tanti davanti a questa figura. Paura e disagio, certo, ma da qui a parlare di fobia, ce ne passa un po’. La paura è una attivazione dello stato di attenzione davanti a un pericolo, è un qualcosa che abbiamo conservato nella nostra evoluzione perché possiamo scegliere tra lotta o fuga.
La fobia a differenza della semplice paura, è una reazione irrazionale e che arriva a coinvolgere e toccarci anche a livello fisico. Davanti alla causa delle nostre fobie, reagiamo con veri e propri attacchi di panico: respiro corto, sudore freddo, senso di vertigine, tachicardia, immobilità o paralisi temporanea. È sì una paura ma che diventa patologica perché non controllabile ed esagerata. Quando diventa così sfuggente, risulta essa stessa un pericolo, ed ecco il disturbo patologico chiamato fobia.
Gli autori di storie horror queste cose le sanno bene, fanno proprio leva sulle paure e se non le abbiamo, ce le provocano. Magari dopo aver visto un film: ad esempio “Aracnofobia” dove la paura più diffusa nell’uomo, quella per i ragni, ti fa sentire le zampette grassocce e pelose sulla schiena o in testa. Quel geniaccio di Hitchcock che ci provoca ornitofobia dopo aver visto il film “Gli Uccelli”, fino ad arrivare a un B-Movie anni ’70 di cui però non ricordo il titolo, perdonatemi l’imprecisione ma narrava la storia di galline impazzite che poteva far venire l’alektorofobia (che in realtà si estende anche a polli cotti) e per finire la tafofobia, paura di essere sepolti vivi con tanto di bara, vedi film “Buried”.
Le fobie nella vita reale sono tante e inimmaginabili. Fobie recenti o se preferite, chiamiamole fobie 2.0: la nomofobia, ovvero la paura di restare senza campo con lo smartphone e quindi sconnessi da internet o magari la sesquipedalofobia, ovvero la paura delle parole lunghe chiamata anche hipopotomonstrosesquipedaliofobia, forse ne soffre chi deve stare per forza dentro a un tweet.
Io personalmente ho scoperto di avere un mix di acrofobia (paura delle altezze) e kenofobia (paura dei vuoti). L’ho scoperto quando a sette anni, sull’ampia terrazza di San Pietro in Vaticano, non sapevo più dove guardare. Vedere le persone di sotto piccole come pulci poi girarmi e trovare un vuoto attorno. Ho un ricordo della terrazza fatta di pavimenti storti, mi chiedo ora mentre scrivo, se questo pavimento così irregolare sia stata una mia percezione errata, una distorsione della realtà dovuta alla paura. E sì che avrei dovuto capirlo quando per andare a vedere i pulcini che la mia nonna sarda teneva al primo piano della sua casa, salivo le scale senza ringhiera a quattro zampe e le scendevo a colpi di culo da seduta. Fatto sta che ora so cosa mi terrorizza. Lo so già in anticipo: salire sulla Tour Eiffel? Ma voi siete pazzi! Salire su una seggiovia magari con accanto una persona che si dimena? E che dire di quella volta a Gubbio per salire alla basilica di Sant’Ubaldo collegata con una funivia? Macché peggio, delle cabine biposto dove si sta in piedi su una grata metallica e che ovviamente ciondola ciondola a millanta metri da terra. E inizio a sudare freddo e per calmarmi cerco di fare la respirazione che consigliano nei film alle partorienti e tutto questo mentre attorno a me il panorama offre viste spettacolari di cui però non godo. Mi manca l’aria, le gambe si inchiodano e resisto alla tentazione di accartocciarle e non provate a toccarmi in quei momenti, non rispondo di me. La fate facile a dirmi “Vabbè basta evitare di andarci” a volte però non si tratta di “salire” ma di ritrovarti il nemico sul percorso. Come quella volta che per arrivare in una piscina naturale scavata nel tufo, dovevi percorrere un sentierino sulle rocce che scendevano sul mare, per la mia testa quello era uno strapiombo e per le mie gambe è stato un valido motivo per rimanere inchiodata tanti, troppi minuti. Senza sapere se proseguire o tornare indietro.
In altre situazioni, evito. A costo di stare da sola dabbasso mentre gli altri vanno a prendersi un caffè in cima a qualche monumento. Il problema è che le stesse sensazioni, solo un zichinin meno, le provo vedendo gli altri in equilibrio su altezze vertiginosissssime. Mettici poi che ora va tanto il Parkour sui grattacieli tra i giovani che si filmano e la mia morte è imminente.
Esagerazioni a parte, esistono però delle fobie dove non basta “evitare la causa” perché magari si tratta proprio di un qualcosa di inevitabile e che può provocare gravi isolamenti sociali. Ecco perché si cercano le soluzioni.
Qualche anno fa si è studiato il meccanismo della paura. In particolare ci si è concentrati su una molecola il BDNF (Brain-derived neurotrophic factor) che oltre ad avere un ruolo importante nella nascita di nuovi neuroni e nuove connessioni, funge da “messaggero” per trasmettere e “ricordare” il sentimento di paura nell’amigdala, il nostro gestore delle emozioni. La modificazione del BDNF è stata messa in relazione ai disturbi d’ansia nei pazienti che hanno subito dei traumi.
Capire cosa inneschi questi meccanismi, capire la causa per “manipolarla” è una sfida per la psicoterapia e per la medicina in generale. In attesa però si può cercare di arginare e trovare la soluzione alle manifestazioni.
Quella melanconia che Aristotele consigliava di guarire col vino, oggi si cerca di contrastarla, di affrontarla guardandola in faccia. È recente lo studio sugli effetti della realtà virtuale sulle ansie, si ripropone la situazione che ci provoca lo stress e ci si immerge per diversi minuti, mentre ci vengono monitorati i battiti cardiaci. Un po’ come alcune proposte psicoterapiche che chiedono di immaginare la situazione che ci provoca disagio. Con degli occhiali 3D invece questa esperienza arriviamo a viverla seppure virtualmente. Troppo recente però come studio per parlare di un risultato definitivo.
Però se il modo di guarire è prendere di petto ciò che ci provoca ansia e se la coulrfobia è il problema, fate così: presentatevi davanti alle panchine di certi fast food e infamate di brutto quell’individuo che in genere sta lì seduto e vestito di dubbio gusto. Invece se vedete un clown con dei palloncini rossi, quello lì è meglio non offenderlo, anzi è meglio proprio evitarlo.
Sparo pixel alla rinfusa, del resto sono nata sotto un palindromo (17-1-71), non potevo che essere tutto e il contrario di tutto. Su una cosa però non mi contraddico «Quando mangio, bevo acqua. Quando bevo, bevo vino» (cit. un alpino)
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