Nascosto tra le pagine della romanzesca biografia di Niki Lauda c’è una vecchia riflessione del campione austriaco che oggi, in tempi di odio cieco, mi piace ricordare. Credo valga almeno quanto la grandezza sportiva del pilota, capace di vincere in due decenni diversi e dopo la prova estrema di un incidente che lo aveva ridotto ad una maschera, senza intaccarne coraggio e determinazione.
La sequenza filmata mostrata più di frequente, quando si parla di Lauda, è lo schianto del Nurburgring, nel 1976. Io ero troppo piccolo per potermela ricordare ma crescendo, da appassionato di formula uno, l’ho rivista tante volte. Per i ragazzi di oggi – cresciuti assistendo a gare in circuiti da sei o massimo sette chilometri, dotati di ampie vie di fuga – è bene sapere che il vecchio Nurburgring era un tracciato da 21 chilometri (vado a memoria, ma mi pare di non sbagliare) dove oggi, per motivi di sicurezza, sarebbe assurdo solo pensare di correre. La Ferrari del campione del mondo, lanciato verso la riconferma nonostante la resistenza del coriaceo britannico James Hunt, andò a sbattere contro un terrapieno, rimbalzò sulla pista e prese fuoco. Lauda senza sensi, immobile dentro l’abitacolo, mentre le fiamme divoravano il bolide. Si fermarono alcuni concorrenti – chissà se accadrebbe, oggi, con l’estremizzarsi della competizione – e, tra loro, uno si buttò tra le fiamme, liberò Lauda dalle cinture e lo strappò al fuoco. Niki lottò per settimane tra la vita e la morte, ma poi la sua forza ebbe ragione delle ustioni. Anche grazie alla guaritrice di Nuchis, dicevamo noi galluresi: una donna in possesso di un miracoloso unguento capace di vincere le bruciature, dalla quale l’asso della formula uno si sarebbe recato. Ma torniamo al pilota salvatore, quel giorno al Nurburgring. Costui era un italiano scheletrico e fumantino con un nome facile da ricordare: Arturo Merzario. Negli anni seguenti, ad ogni intervista, Lauda mai dimenticò di dire che doveva la sua vita a lui. Non era un semplice atto di eroismo, per quanto nessun atto di eroismo sia banale. Il fatto è che Merzario detestava Lauda e non perdeva occasione di insultarlo, ogni volta che gli mettevano un microfono sotto il naso. Lauda, dal canto suo, non era certo un esempio di simpatia, l’archetipo del pilota egoista e tutto concentrato sul risultato, senza guardare in faccia a nessuno Lauda sapeva di non essere stimato da Merzario. E una volta, in non mi ricordo quale intervista, disse queste parole: “Quello di Merzario non fu semplice eroismo, fu molto di più. Ha messo a rischio la sua vita per salvare quelle di un uomo che non poteva soffrire”. Oltre alle lezioni di guida, questa credo sia la più grande lezione di vita e civiltà che Niki Lauda, morto oggi a settant’anni, ci abbia lasciato.
Nato nel 1971 ad Arzachena ed ivi smisuratamente ingrassato negli anni seguenti, figlio di camionista e casalinga. Titoli appesi alle pareti: laurea in Lettere moderne all'Università di Sassari, iscrizione all'albo dei giornalisti professionisti, guida nazionale di mountain bike, presidente della Asd Smeraldabike, direttore della testata Sardegnablogger. È stato redattore di tre diversi quotidiani sardi: dal primo è stato licenziato, gli altri due sono falliti. Nel novembre del 2014 è uscito il suo primo romanzo, "Cosa conta".
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