Luciano Liggio muore a Nuoro, in galera, nel 1993. Ma il 14 maggio del 1964 lo Stato ha la possibilità di fermarne l’ascesa criminale. Sulla sua strada trova infatti un tenente colonnello dei carabinieri in grado di fronteggiarne l’astuzia. Si chiama Ignazio Milillo.
Luciano Liggio è già, in quegli anni, una leggenda della mafia corleonese, quella di Riina, Bagarella, Provenzano. Comincia a farsi conoscere poco meno che ventenne. Ne ha 23 quando, nel 1948 uccide, in combutta con altri, un sindacalista che non avrebbe mai potuto piegare con le minacce, Placido Rizzotto. E’ il primo caso di lupara bianca; uccidi e fai sparire il corpo. Liggio e i suoi sequestrano Rizzotto, lo linciano, ne gettano il cadavere in una foiba. L’inchiesta è un percorso a ostacoli, ma la trama è degna di un film. L’unico testimone, un pastorello dodicenne di cui è giusto ricordare il nome, Giuseppe Letizia, viene scambiato per un malato visionario. Il padre decide di portarlo da un medico. Sotto il camice c’è però Michele Navarra, all’epoca capo dei corleonesi e mandante dell’omicidio di Rizzotto, che non si farà scrupolo di uccidere il bambino con un’iniezione d’aria.
L’omicidio di Rizzotto avviene nel ’48, l’arresto di Liggio nel ’64. In questa parentesi temporale. Liggio costruisce la sua leggenda di padrino. Assolto nel ’52 per insufficienza di prove per l’omicidio del sindacalista, i cui resti verranno riconosciuti ben 64 anni dopo il delitto grazie all’esame del dna, Liggio comincia la sua ascesa, entrando in contrasto con Navarra che massacrerà nel 1958 e dando vita a una violentissima guerra tra clan per il controllo del territorio.
Liggio, ricercato, non si trova. Ha però un punto debole. E’ malato. Soffre del morbo di Pott, una forma di tubercolosi polmonare. Nel 1963, al tenente colonnello dei carabinieri, Ignazio Milillo arriva una soffiata. Liggio si trova ricoverato in una clinica di Palermo. Verrà dimesso mentre i militari controllano quella sbagliata.
Il tenente colonnello Milillo non demorde. Quando arriva nella clinica giusta, indaga sulle visite ricevute dai pazienti. Annota nomi e cognomi. Ordina pedinamenti e appostamenti. E, infine, trova Luciano Liggio nascosto nel posto che nessuno avrebbe potuto immaginare. La casa di una donna, Leoluchina Sorisi, la fidanzata di Placido Rizzotto, il sindacalista che Liggio aveva ucciso sedici anni prima.
Il “colpo grosso” di Milillo non servirà a molto. Liggio fu assolto per insufficienza di prove, riprese la sua carriera criminale e restò in libertà fino al 1974, quando fu nuovamente arrestato a Milano e finalmente condannato all’ergastolo. Non per l’omicidio di Rizzotto ma per quello di Navarra. Ciò non gli impedì di commissionare omicidi anche stando dietro le sbarre e di morire per cause naturali, stroncato da un infarto, nel carcere di Nuoro.
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