Il brindisi (genericamente inteso) è un rito antico legato in particolare al vino, che fin dal neolitico era conosciuto ampiamente nell’ambito del mediterraneo. Sono attestati infatti, in diverse località del bacino mediterraneo, dalla Grecia alla Sicilia, dall’Anatolia fino ai monti del Caucaso, tracce archeologiche di vinificazione risalenti a diversi millenni fa, in piena epoca neolitica. Inizialmente un antenato del vino si ricavava dalla vite silvestre a partire, verosimilmente, dalle zone iraniane, caucasiche e nella valle del Giordano; poi, gradatamente, si incominciò a coltivare la vite. Il processo di vinificazione era dunque conosciuto e, certamente, faceva parte di una ritualità che dalla raccolta degli acini della pianta selvatica, la vitis vinifera, un rampicante che vegeta spontaneo nelle boscaglie mediterranee, portava alla vinificazione e infine al suo consumo. Il vino compone la cosiddetta triade mediterranea, insieme al grano e all’ulivo. Questi tre elementi del ciclo agrario sono fondativi di tutta la civiltà mediterranea; elementi fortemente simbolici, persino sacri, anche del moderno immaginario collettivo occidentale, basti pensare quello che rappresenta ancora oggi il vino nella liturgia cristiana. A quanto sostengono gli studiosi, la vinificazione potrebbe essere il frutto di un caso, dovuto alla conservazione di uva in recipienti con conseguente fermentazione. Tuttavia, il vero salto culturale è dato dalla domesticazione della vitis vinifera, di cui si hanno importanti attestazioni, indovinate un po’, in Sardegna. Su questo dato, occorre dire, si fa un po’ di colpevole confusione, nel senso che la martellante e costante temperie riduzionista della storiografia nuragica tende a confonderlo con la vinificazione che, come abbiamo visto, era pratica diffusa spontaneamente e non è indice di una cultura agronomica più avanzata che altrove. Infatti è la scoperta del sito nuragico di Sa Osa, vicino a Mont’e Prama, opera degli studiosi del Centro Conservazione della Biodiversità dell’Università di Cagliari, che evidenzia come la domesticazione di questa pianta fosse praticata in Sardegna fin dall’epoca nuragica; dopo tutti gli accertamenti scientifici della comunità internazionale, è stata pubblicata il 14 dicembre del 2014 in una importante rivista archeobotanica in lingua inglese. Il ritrovamento di semi di uva perfettamente conservati a Sa Osa, risalenti, secondo le analisi con il carbonio 14, a oltre tremila anni fa, si inserisce perciò nel dibattito sull’origine della domesticazione di questo rampicante, confermando la teoria che sostiene che la pianta sia stata coltivata indipendentemente sia in Oriente che in Occidente. Diversi studi avevano già verificato la presenza di indizi e prove che facevano ritenere l’isola, in epoca nuragica, un importante centro di coltivazione della vite con la paternità di varietà di uva giunte fino ai giorni nostri. In particolare la presenza di brocche sarde contenitrici di vino che si irradiano dall’isola, o le analisi archeobotaniche che mostrano, nel Sinis, la presenza della vite a scapito di altre piante selvatiche. In particolare, nel 2010, furono trovati vinaccioli carbonizzati durante gli scavi del Nuraghe Arrubiu di Orroli, risalenti al 3000 a.C., assimilabili ad una varietà di vino ancora presente nell’isola, il Bovale Sardo o Muristellu. A Sa Osa sono stati rinvenuti i vinaccioli perfettamente conservati in delle fosse asettiche inventate dagli antichi nuragici per la conservazione del cibo. Tra l’altro, oltre ai semi della vite, erano presenti carne di animali come il cervo, e semi di altre piante utili all’uomo, tra cui, fatto importante, l’ulivo e il melone. Anche quest’ultima cucurbitacea si riteneva proveniente dall’Oriente. La grande novità sensazionale della scoperta di Sa Osa, oltre allo stato eccezionale di conservazione dei reperti, è data dalla somiglianza con i vinaccioli con alcune varietà di vino tipicamente sarde, come la Vernaccia e la Malvasia. Lo screening dei semi recuperati nell’archeofrigo ha, in un certo senso, ripercorso la storia della vite sarda, da quella selvatica fino alle prime forme di domesticazione di questo rampicante. Ecco dunque che questa scoperta ha confermato, se ce ne fosse ancora bisogno, che la civiltà nuragica non era quella descritta dalla scuola archeologica tradizionale, delle fortezze in guerra tra loro, della paura del mare e dei pastori con la mastruca chiusi nel loro isolamento, ma al contrario, anche dal punto di vista agronomico, era straordinariamente avanzata. Solleviamo allora i calici, magari dell’antico vino sardo, aspettando di salutare il nuovo anno. Che anticamente non era una scadenza segnata in un calendario appeso alla parete, ma un rito potente che coinvolgeva con intensa spiritualità gli uomini in una attesa spasmodica, nei giorni del solstizio invernale, segnato dall’orientamento degli edifici sacri. Tornerà a splendere il sole, tornerà a sollevarsi alto nel cielo, a riscaldare la terra e far spuntare le messi da sotto la terra? Riempiamoci di nettare divino per attenuare l’angoscia dei giorni di spasmodica attesa, celebriamo i primi timidi segnali di risorgimento dell’astro che dona luce e vita alla terra, beviamo e offriamo i sacrifici agli Dei. Buon anno Terra, grazie per i frutti che produci dal tuo ventre, buon anno e grazie, grazie Sole per essere tornato a splendere alto nel cielo, più luminoso che mai.
Fiorenzo Caterini, cagliaritano classe '65. Scrittore, antropologo e ambientalista, è studioso di storia, natura e cultura della Sardegna. Ispettore del Corpo Forestale, escursionista e amante degli sport all'aria aperta (è stato più volte campione sardo di triathlon), è contro ogni forma di etnocentrismo e barriera culturale. Ha scritto "Colpi di Scure e Sensi di Colpa", sulla storia del disboscamento della Sardegna, e "La Mano Destra della Storia", sul problema storiografico sardo. Il suo ultimo libro è invece un romanzo a sfondo neuroscientifico, "La notte in fondo al mare".
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