“Per tutta l’Italia, gli operaie che erano state fasciste tutte diventavano comuniste e quindi era tempo che cambiavano le cose. E io, che era fascista della prima ora, subito mi sono fatto partigiano e comunista, ché altrimenti un posto non lo poteva capitare”. L’ho scoperto per caso, premendo per errore sul telecomando il tasto di Sky Arte. Immagini in bianco e nero di strade e paesaggi desolati, rocce grigie conficcate in campi dorati di fieno, la voce narrante dello stesso attore che impersona Nicolò Zito, il giornalista amico di Montalbano. Voce soffocata, catarrosa. Mi sono fermato ad ascoltare. Raccontava qualcosa in una lingua sgangherata, lingua da zotico. La lingua di Vincenzo Rabito, Da analfabeta a storico, un caso commovente e appassionante di volontà e dedizione poste al servizio della conoscenza.
Rabito era nato nel 1899 a Chiaramonte Gulfi, un paese in provincia di Ragusa. Stette in trincea sull’Isonzo, come molti suoi coetanei, s’arrangiò come meglio poteva per limitare gli stenti di una vita appena sopra il limite della pura sopravvivenza. Non frequentò nessuna scuola, non imparò a scrivere né a leggere se non in età adulta, superati i trent’anni. Fu assunto come cantoniere dopo la Liberazione e sulla strade di competenza se ne stette sino alla pensione. Poi, nei primi anni sessanta, acquistò (senza dar troppo peso alla cosa) una macchina da scrivere Olivetti. Tra il 1968 e il 1975, Vincenzo passò buona parte del tempo tappato nella sua camera. In quei sette anni, scrisse qualcosa come duemila pagine di memorie: cartelle zeppe di caratteri e righe fitte fitte, tenuti assieme le une alle altre da ruvido spago. Vincenzo Rabito morì nel 1981, senza aver mai detto una parola ai figli sul tomo che aveva nascosto in un cassetto. Uno di loro, Giovanni, lo trovò negli anni novanta e lo inviò all’Archivio di Stato. Nel 2007 Einaudi lo pubblicò sotto il titolo di Terramatta, diventato poi un film affidato alla regista Costanza Quatriglio e proiettato di recente al Festival del Cinema di Venezia.
Il risultato è una testimonianza storica lunga sessant’anni. Limpida, genuina, riportata fedelmente in quel poco di italiano che il quasi analfabeta Rabito possedeva, aspetto distintivo delle memorie. Ma proprio per questo straordinariamente diretta, capace di comunicare con commovente immediatezza drammi, aspirazioni e miserie di quel lungo tempo siciliano, calandole però nel contesto storico con frequenti riferimenti ai fatti del tempo. Non c’è traccia di omissione o finzione, in quel che Rabito estrae dalla sua memoria. Una irresistibile vena comica sottolinea prima gli espedienti per tirare avanti, poi mette in ridicolo l’affacciarsi dei vizi generati da un timido benessere.
Rabito che da fascista passa comunista e si spaccia per partigiano, pur di trovare un lavoro; Rabito che nel suo cantiere stradale viene raggiunto dalla propaganda dei partiti politici, prima delle politiche del 1948, “e io con tutti i partiti ero d’accordo e a tutti promisi il voto”; Rabito che assiste alla propaganda democristiana veicolata dai parroci, fondata sulla minaccia di esproprio delle chiese se i comunisti fossero andati al governo; Rabito che non perde un minuto di straordinario al lavoro, quando dal 1954 la Regione Sicilia ordinò di asfaltare tutte le strade, perché l’unica cosa che gli interessa è mettere da parte quattro soldi per il futuro dei figli; Rabito che nel 1959 acquista il suo primo televisore in società con alcuni vicini, ma la moglie presto ne pretende uno di esclusiva proprietà della famiglia. Sul quale, una volta acquistato, la signora Rabito eserciterà un assoluto monopolio.
E poi, toccante, il momento in cui il portalettere gli recapita nella piazza di Chiaramonte il telegramma del figlio più grande, che comunicava la fresca laurea in ingegneria, Un figlio ingegnere, figlio di uno che aveva imparato a scrivere dopo i trent’anni e s’inchinava ogni volta quando per strada incrociava il geometra del paese.
E poi il viaggio notturno in treno verso Bologna, nel 1966, vissuto senza mai chiudere occhio, reso con una minuzioso cronaca comprendente i precisi orari di sosta ad ogni stazione: Palermo, Napoli, Roma, Firenze e Bologna. Infine la vacanza a fine anni sessanta sull’Isonzo, la cui bellezza sorprende Vincenzo Rabito: quel fiume lo ricordava insanguinato dalla strage al fronte di mezzo secolo prima.
Vincenzo Rabito, 1899-1981, scrittore. Questa iscrizione hanno voluto i figli sulla tomba del padre. Scrittore, ma anche storico. Terramatta andrebbe fatto leggere nelle scuole. Non so quanti manuali storici scritti da blasonati accademici sappiano trasmettere con altrettanta umanità e carica espressiva i terremoti del Novecento.
Nato nel 1971 ad Arzachena ed ivi smisuratamente ingrassato negli anni seguenti, figlio di camionista e casalinga. Titoli appesi alle pareti: laurea in Lettere moderne all'Università di Sassari, iscrizione all'albo dei giornalisti professionisti, guida nazionale di mountain bike, presidente della Asd Smeraldabike, direttore della testata Sardegnablogger. È stato redattore di tre diversi quotidiani sardi: dal primo è stato licenziato, gli altri due sono falliti. Nel novembre del 2014 è uscito il suo primo e-book "Cosa conta".
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