Tutte le volte che ascolto “la donna cannone” di Francesco De Gregori il mio ricordo diventa una città: Lucca. Era il 1984. Aprile. Come il film di Nanni Moretti, come il mese della resistenza, come una storia sbagliata da ricominciare. A Lucca c’ero finito per lavoro. In carcere. Oggi si chiamerebbe “on the job”, ai miei tempi era solo “apprendimento”. Me lo ricordo quel carcere dentro la città, dentro le mura, vicino alla via Fillungo dove c’era il nostro albergo. Mio e dei colleghi. In carcere c’era un direttore che per me è stato come un padre. Si chiamava Dr. Truscello e fu lui a farmi capire la bellezza di certe cose. Saper ascoltare i detenuti, avere la pazienza di sentire i rumori delle sezioni, chiacchierare con gli agenti di custodia, oggi poliziotti penitenziari. Avevo 25 anni e il futuro in tasca. E la donna cannone? Ecco, c’era una mia collega dolcissima e incasinata con Giorgio (credo si chiamasse Giorgio ma non ne sono sicuro) e c’ero io incasinato di mio. Sapete come vanno certe cose: che si, insomma, stare soli, lontani. Ecco, quelle cose lì. Avevo appena comprato la musicassetta (eh si, c’erano quelle, a quei tempi) di Gianna Nannini e ascoltavo Fotoromanza a palla dentro il mio Walkman e soprattutto dentro la mia infinita solitudine, quando Anna mi disse se volevo ascoltare la sua cassetta: era un Q disc, quelli che la RCA pubblicava con solo quattro brani. Francesco De Gregori che amavo di mio. E sentii la donna cannone. Allora ho capito il peso della dolcezza. E di Anna. Di Frosinone. Ciociara con un sorriso disarmante. E di Paola. Di Avellino. Napoletana con gli spigoli tra gli occhi e la vita. E di Emanuela. Di Milano. Con le sue medicine e le sue false e gioiose malattie. E di Daniela, la nostra tutor. E di Patrizia. Di Roma. Con il suo amore che disegnava storie e pareti e viveva a San Lorenzo. La donna cannone divenne la colonna sonora di quel mese trascorso a Lucca. Con Gaio ed Enrico ad ascoltare le voci di donne che ci accompagnavano dentro un carcere che pareva di vetro. Con il direttore che invitava il detenuto a suonare la chitarra e quello, folle, stonato ed incredibilmente irreale, partiva sempre con la canzone di Franco Califano e tutti ad applaudire dentro la mensa agenti che dopo pranzo era tutta per noi. Poi, la sera, in albergo, a cercare il modo di intersecare i silenzi con gli abbracci e la donna cannone che poteva essere la soluzione ma rimaneva il problema, quelle note sul piano che correvano stanche, quelle parole che rincorrevano la vita, e noi che speravamo di volare oltre l’azzurro dell’azzurro. Noi che speravamo di passare per la stazione a prendere l’ultimo treno.
Con Anna ci siamo ritrovati dopo trent’anni. Aveva lo stesso sorriso e la stessa voglia di volare nel cielo in carne e ossa. Abbiamo ricordato quei giorni e ci siamo detti che eravamo stati cretini. Molto cretini. Era un’altra era e un altro carcere. Abbiamo chiuso gli occhi nell’attimo esatto in cui tutto sparì. Ma toccandoci la mano abbiamo giurato e spergiurato che, noi, nel 1984 eravamo stati lì. A Lucca. Con la donna cannone. Senza ali e senza rete.
Nato a Oristano. padre gallurese, madre loguderse, ha vissuto ad Alghero, sposato a Castelsardo e vive a Cagliari. Praticamente un sardo DOC. Scrive romanzi, canta, legge, pittura, pasticcia e ascolta. Per colpa del suo mestiere scommette sugli ultimi (detenuti, soprattutto) e qualche volta ci azzecca. Continua a costruire grandi progetti che non si concretizzano perché quando arriva davanti al mare si ferma. Per osservarlo ed amarlo.
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