Appartengo alla generazione di “alto gradimento”, ai tormentoni radiofonici, ai personaggi stranulati e scemi, forse molto cretini ma che riempivano le nostre lunghe giornate davanti ad una radio. Mario Marenco aveva un’intelligenza non comune, un architetto folle, forse folletto, amante della bellezza e delle cose che servivano a vivere meglio. Marenco era quello che noi chiamavamo più prosaicamente “cazzone”, uno che riusciva a dire stupiddagini con la bravura di non essere mai banale. Dal colonnello Buttiglione a Riccardino, passando per l’altra domenica, quelli della notte, indietro tutta. Ha lavorato con i veri artigiani della risata e del serissimo cabaret: Cochi e Renato, Jannacci, Paolo Villaggio, Gianni Boncompagni, Renzo Arbore, Nino Frassica. Gente che ha costruito un modo di vedere le cose e il mondo, gente che ha fatto divertire divertendosi. Marenco appariva il più stralunato, quasi il più incomprensibile. Utilizzava spartiti ironici, in apparenza difficili da decifrare. Non era, per capirci, Lino Banfi e neppure Pippo Franco. Non era, dunque, una persona scontata. Non era neppure un protagonista ma un ottima spalla per tutti, soprattutto per Arbore e tra i due foggiani traspariva, sempre, un’intesa quasi perfetta. Le battute nascevano nella spontaneità degli eventi. Bastava un canovaccio e poi entrambi giocavano a costruire mirabili e impossibili giochi di parole, costruzioni complicate, situazioni paradossali e grottesche. Marenco era lo scemo intelligente che difficilmente trovavi da altre parti. Alto gradimento rappresentò per me e per quelli della mia generazione il punto più alto della costruzione di un programma. Fu amato, osannato e copiato. Mi vanto di aver inventato un piccolo clone a Teleradio Alghero 101. Correva l’anno 1982, l’anno dei mondiali di calcio e insieme a Martino e Giovanni decidemmo di provare a costruire un programma sulla falsa riga di Alto gradimento. Inventammo dei personaggi strampalati, inviati speciali ai mondiali di Spagna, un trombettiere innamorato di una spagnola che si chiamava di cognome Cozzas. Provammo a divertirci divertendo e nel nostro piccolo ci riuscimmo. Il programma si chiamava ‘Che ci appizza’ che nello slang napoletano significava ‘che c’entra’. Utilizzavamo anche il brano rock che apriva alto gradimento e Giovanni, da buon napoletano, riusciva ad essere un piccolo Marenco. Ecco, questo siamo stati e questo è stato per noi e per la nostra bislacca generazione Mario Marenco: un cazzone, di quelli seri. Mica come quelli che girano ai giorni nostri e non sono protagonisti, come dovrebbero, di spettacoli radiofonici o televisivi. Purtroppo stanno da altre parti. Lui, il grande Marenco li osserverebbe con quello sguardo stralunato, con quei capelli pasticciati e urlerebbe, ridendo: “Carmineeeeeeeeeee”. Grazie per esserci stato e per averci regalato il tuo genio, il tuo talento, la tua bellezza.
Nato a Oristano. padre gallurese, madre loguderse, ha vissuto ad Alghero, sposato a Castelsardo e vive a Cagliari. Praticamente un sardo DOC. Scrive romanzi, canta, legge, pittura, pasticcia e ascolta. Per colpa del suo mestiere scommette sugli ultimi (detenuti, soprattutto) e qualche volta ci azzecca. Continua a costruire grandi progetti che non si concretizzano perché quando arriva davanti al mare si ferma. Per osservarlo ed amarlo.
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