Io ero sulla 131. Come sempre. A macinare chilometri tra Sassari e Cagliari. E contare i cartelli e guardare i paesi. In un grigio quasi sconosciuto. Troppo livido per essere normale. Ha cominciato a grandinare. All’altezza di Tramatza. Dove ci si ferma per un caffè e per la benzina e per tagliare il viaggio a metà. Km. 102. Siamo più o meno alla metà. Più o meno. Quel giorno pioveva di più. Molta pioggia e poca visibilità. Molta pioggia e poche certezze. Piove. Acqua che non cerchi e non vorresti calpestasse troppo la tua terra. Acqua che cammina e leviga. Pare addolcisca ma non ti senti sicuro. Arrivi al km. 75, quello per il bivio di Terralba e l’acqua comincia ad essere davvero tanta, davvero troppa, davvero unica. Ho visto il cielo rassodarsi e diventare pietra, l’ho visto rattrappirsi come carta straccia. Ho sentito urla che non sapevo da dove potessero arrivare. Mi voltavo tra l’acqua e la paura e camminavo a passo lento. Verso Uras. Dove la saracinesca dell’orizzonte pareva completamente abbassata. Neppure un filo, neppure una speranza. Ho rallentato come tutti. Ci siamo fermati nelle piazzuole. Tra l’asfalto e l’angoscia, tra il rumore battente di acqua diventata incredibilmente nemica e lontana. Quel rumore forte sul metallo dell’auto ci avvolgeva e batteva, batteva, batteva. Non c’era neppure lo spazio tra una goccia e l’altra. Se avessi dovuto disegnare quell’acqua non sarebbe bastata la matita che usavo da bambino per quelle gocce sottili dentro un foglio bianco. Batteva, batteva, batteva. Abbiamo provato a ripartire, siamo passati davanti ad Uras con la lentezza di una carrozza d’altri tempi. Con quell’acqua che ci accompagnava e ridisegnava l’asfalto. Ma il cemento e il catrame sono forti e l’acqua ci scivola sopra senza entrare, senza penetrare. Così pensavo sapendo di raccogliere sciocchezze. Così pensavo tra Terralba e Uras mentre la pioggia batteva, batteva, batteva. Sono arrivato a Cagliari dove il cielo era meno denso e le nuvole avevano lo stesso colore e la stessa consistenza di quelle che disegnavo da ragazzo. Vaporose e bianche. Ho pensato: è tutto finito. Ho pensato: l’acqua cammina e non resta. Ho pensato: ha sciacquato solo la terra e non se l’ha trasportata. Sono millenni, miliardi di anni che l’acqua cammina da queste parti. Ho acceso la televisione e, lentamente, ho capito che quel giorno era diverso dagli altri giorni. Ho capito che lo sgomento e la paura avevano lasciato posto all’orrore. Ho scrutato il calendario e ho capito. Il destino disegna sempre binari che apparentemente non si incontrano mai. Il 18 di novembre del 1963 moriva mio padre. Aveva 33 anni e molta voglia di raccontare la sua vita. Il 18 di novembre. Ci sono giorni che non dovrebbero mai arrivare. Il 18 novembre 2013, ovvero proprio cinquant’anni dopo, i pensieri si sono accavallati e si sono abbracciati. mortalmente, come in un romanzo. Quella pioggia, forse, rappresentava le mie lacrime mai versate in questi cinquant’anni, ma tenute orgogliosamente dentro il ventre dell’anima; erano le lacrime di una sconfitta della vita, erano le lacrime di chi non può più difendersi. Questi morti, questo nuovo 18 novembre ancora da ricordare è una vergogna ed è una ferita. Non è l’acqua signori ad aver ucciso. Sarebbe troppo facile. E’ l’acqua che non aveva spazio a camminare dentro le nostre stupide scelte, dentro la nostra stupida voglia di essere più forti di tutto. Dell’acqua e del vento. E della vita che batteva, batteva, batteva. In un attimo, un solo attimo, miliardi di lacrime tutte insieme e la vita non batteva più.
Nato a Oristano. padre gallurese, madre loguderse, ha vissuto ad Alghero, sposato a Castelsardo e vive a Cagliari. Praticamente un sardo DOC. Scrive romanzi, canta, legge, pittura, pasticcia e ascolta. Per colpa del suo mestiere scommette sugli ultimi (detenuti, soprattutto) e qualche volta ci azzecca. Continua a costruire grandi progetti che non si concretizzano perché quando arriva davanti al mare si ferma. Per osservarlo ed amarlo.
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