In questo ultimo periodo abbiamo assistito ad un attacco concentrico nei confronti di alcuni prodotti tipici dell’isola, forse tra i più caratterizzanti. A proposito dell’Expo, una conduttrice televisiva ha criticato la volontà dei sardi di portare all’esposizione universale il tipico maialetto da latte, quello che può essere definito il piatto nazionale sardo. Successivamente, una imprenditrice assidua frequentatrice dei salotti televisivi, ha monopolizzato la campagna animalista contro l’uccisione degli agnelli a Pasqua. Un prodotto che contribuisce in modo determinante a tenere in vita uno dei comparti più importanti dell’intera isola.
Coincidenze?
Nel frattempo, in Sardegna, è particolarmente accesa la polemica contro l’occupazione e l’inquinamento delle Servitù militari, contro le mancate bonifiche delle aree industriali ormai dismesse, contro la creazione di nuove discariche per rifiuti tossici, contro la ristrutturazione dell’inceneritore di Macomer.
E’ possibile, mi domando, che ci sia una correlazione tra le due cose?
Vero la fine dell’800, il giovane stato unitario si trovò a dover prendere una delicata decisione politica. Di fronte ad uno scontro doganale acceso con la vicina potenza francese, scelse di proteggere la crescente industria del nord Italia, a scapito dei prodotti agricoli del sud, che subirono un colpo durissimo. Una decisione presa grazie alla predominanza in parlamento e nei centri vitali del paese della borghesia industriale del nord, che ha sempre dominato il paese, spesso in alleanza con la classe latifondista e baronale del sud.
Nei primi del ‘900 Gramsci elaborò un concetto cardine del pensiero del secolo, quello di “egemonia”. La classe dominante controlla l’ideologia, la morale, la coscienza della società. E’ la classe egemone, quindi nel caso italiano la borghesia industriale, specie del nord, che impone le regole morali e civili di comportamento.
Successivamente, in Sardegna, alla storica dialettica tra contadini e pastori, se ne sostituì un’altra, molto più accanita, tra industria e comparto agropastorale.
Negli anni ’60 e ’70 del Piano di Rinascita e del suo successivo rifinanziamento, agricoltura e industria si spartirono con furiose lotte i proventi di quei finanziamenti pubblici, con la definitiva vittoria di quest’ultima. In quella contesa determinante fu la forza egemone della “razza padrona”, la borghesia industriale del Nord (i Cernis, i Rovelli, i Moratti), che riuscì, premendo sugli ambienti politici amici, a far passare l’idea che l’industria pesante, energivora e inquinante, era l’unico volano di sviluppo dell’isola.
L’idea dello sviluppo industriale come unico possibile, in Italia e non solo, era la convinzione ingenerata dall’egemonia che avevano gli industriali. In realtà ciò è vero solo laddove esistono determinate condizioni, e non è una ricetta applicabile tout court.
Ma gli anni della “Rinascita” videro gli industriali trionfare. Tornando indietro nel tempo, è sembrato di rivivere l’epoca del disboscamento della Sardegna, quando la stessa borghesia industriale del nord si era affollata con l’intento di lucrare sopra le speculazioni del taglio dei boschi.
Oggi sono in ballo altri proventi, in particolare i contributi pubblici per le energie rinnovabili.
La Sardegna avendo una bassa densità abitativa e vaste aree disponibili, si presta particolarmente per questo business.
Anche in questo caso è tutto un affaccendarsi, da parte ancora dell’imprenditoria del nord ma anche di varie multinazionali, di imprese per realizzare impianti, grazie agli incentivi pubblici, come il termodinamico, il fotovoltaico, il geotermico, i termovalorizzatori (ovvero inceneritori che recuperano energia), per non parlare delle prospezioni per il metano e del riciclo di materiale di scarto dei processi petrolchimici operati dalla Saras. Poi ci sono le centrali a biomasse e il tentativo di realizzare filiere di specie vegetali pirofile come le canne e il cardo, con sottrazione di terreno agricolo.
Infine ci sono le discariche, quelle in continuo ingrandimento, come quella gigantesca che gestisce i fumi di acciaieria nel Sulcis, o il rischio sempre presente di dislocare in Sardegna il deposito per i rifiuti nucleari.
Spesso questi affari hanno evidenziato il conflitto tra terreni destinati all’agricoltura e industria.
In uno scenario dove le industrie, nonostante le montagne di soldi pubblici spesi, stanno crollando una dietro l’altra, l’agroalimentare sardo mostra segni di vitalità anche in questo periodo di crisi.
Per la prima volta dopo tanti anni, il prezzo del latte è salito a cifre incoraggianti, e l’esportazione del pecorino, grazie anche al prezzo del dollaro, ha ripreso a pieno ritmo. Il vino sardo sta aumentando le sue esportazioni e guadagnando un crescente apprezzamento nel mondo. Aziende come As do Mar sono considerate all’avanguardia nella conservazione del pesce, e le cooperative e le aziende del settore caseario reggono il mercato. La filiera del sughero, nonostante la trascuratezza della classe politica, da lavoro a duemila persone circa. Vi sono poi aziende specializzate che operano con prodotti di pregio ad alto valore aggiunto, come lo zafferano. Una statistica della Coldiretti rileva, per la prima volta dopo anni di demonizzazione e svilimento culturale, un cambio di tendenza da parte dei giovani nei riguardi del ritorno all’agricoltura.
Migliaia di ettari di terreni abbandonati, lasciati a riposo per decenni, sono pronti per essere rimessi in produzione.
Di fronte a questo scenario incoraggiante, sembra davvero assurdo che la Regione, lo Stato e chi per loro punti ancora i propri sforzi nell’industria inquinante e che, soprattutto, metta a repentaglio terreni agricoli e le stesse aziende agricole con le filiere delle biomasse o la dislocazione di impianti potenzialmente inquinanti, come l’inceneritore di Tossilo.
Ora, per tornare alla domanda iniziale, ovvero se c’è una correlazione tra la campagna denigratoria contro i prodotti tipici sardi e la volontà di impiantare altre industrie inquinanti nell’isola.
Negli anni ’60 e ’70, quelli della contesa acerrima per i finanziamenti tra comparto agropastorale e industria pesante, la campagna denigratoria, contro il mondo tradizionale sardo, raggiunse vette ancora più alte del periodo del disboscamento. Erano anni duri, in Sardegna imperversavano i sequestri, si vivevano gli anni del terrorismo politico, mafia, camorra e criminalità organizzata terrorizzava il paese, come la grande delinquenza nelle grandi città. E tuttavia solo al banditismo sardo venne data una connotazione antropologica, inventando, persino, approfittando del fortunato romanzo di Gavino Ledda, la figura del padre padrone. Come a dire che quel mondo tradizionale era sbagliato nelle sue fondamenta, la famiglia. Invece il povero Gavino raccontava lo scandalo di una eccezione, non la regola. Fosse stata la regola, non l’avrebbe raccontata.
Arrivarono così le industrie pesanti, quelle che dovevano portare lo sviluppo, senza troppi rimpianti per quel mondo che veniva stravolto.
E che, ad ogni modo, ha resistito in parte fino ad oggi, anche per mancanza di alternative.
La Sardegna può vantare tradizioni del sapere contadino che sono davvero un vanto, e che andrebbero valorizzate nel miglior modo possibile.
Una di queste, al netto delle varie truffe che sono emerse, è certamente l’agnello sardo. Un prodotto che conserva ancora marcati tratti di genuinità, almeno rispetto al trattamento chimico della carne di gran parte del resto del mondo.
Sul maialetto pesano gli ostacoli provocati dalla annosa piaga della peste suina. Dobbiamo cospargerci il capo di cenere se ancora non si è debellata questa piaga, in un momento in cui, grazie all’isolamento, nel paradosso, sono proprio i nostri suini che potrebbero un giorno essere riconosciuti come sicuri, a causa dell’avanzata in Europa della malattia.
Per cui, a prescindere dalla sensibilità animalista che è in crescita nell’opinione pubblica, mi sembra di rilevare, in questo attacco ai prodotti tipici della Sardegna, una sorta di fastidio per il genuino, che tanto contrasta con un modo di affari sempre tendente all’industrializzazione, e anche, in generale, per il mondo delle campagne, sempre pronte ad essere criminalizzate e disprezzate.
Attacco che segue una critica venata di una vera e propria denigrazione contro i sardi, operata dall’organo di stampa principale di quel ceto egemonico, il Sole24Ore, e da altri famosi manager del nord, contro il rifiuto della Regione di autorizzare le prospezioni di metano nell’area contigua a dove opera la più grande impresa agricola della Sardegna.
Come a dire, sulla scorta dell’egemonia gramsciana, che le classi dominanti del paese, legate alla borghesia industriale del nord Italia, imponendo la loro morale salottiera e ipocrita con la destra, poi ti impiantano la centrale a biomasse, l’inceneritore, la prospezione di metano con la mano sinistra.
Fiorenzo Caterini, cagliaritano classe '65. Scrittore, antropologo e ambientalista, è studioso di storia, natura e cultura della Sardegna. Ispettore del Corpo Forestale, escursionista e amante degli sport all'aria aperta (è stato più volte campione sardo di triathlon), è contro ogni forma di etnocentrismo e barriera culturale. Ha scritto "Colpi di Scure e Sensi di Colpa", sulla storia del disboscamento della Sardegna, e "La Mano Destra della Storia", sul problema storiografico sardo. Il suo ultimo libro è invece un romanzo a sfondo neuroscientifico, "La notte in fondo al mare".
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