A Pasqua mangiavamo l’agnello. Babbo era medico condotto in campagna e qualche volta tornava a casa con galline e agnellini. Le prime scomparivano ben presto. Gli altri duravano qualche giorno, il tempo che ci affezionassimo a quello di turno, dandogli anche dei nomi. Commovente era l’istinto di gregge dell’agnellino, che seguiva passo passo quello di noi che riteneva la madre, ma noi bambini, anziché un imprinting naturale, lo giudicavamo un antropico sentimento d’affetto. Nonostante questi pochi ma intensi giorni, l’addio non era straziante. Il “Gigino” o “Fiorellino” di turno a un certo spunto spariva e lo vedevamo ricomparire sotto forma di costolette arrostite o accompagnate da sugo con olive. Al termine del pranzo si diceva. “Quant’era buono Gigino!” e non si capiva se la nostalgia fosse per quei giorni di comunanza di sentimenti con lui che ti seguiva fiducioso o per l’arrosto ormai esaurito. Nessuno ti insegnava a torturare una bestia, ricordo anzi che babbo stroncava con molta severità certe brutte pulsioni bambinesche a proposito di lucertole, bisce, uccellini, cani e gatti, tuttavia l’animalismo, a quei tempi, sarebbe apparso una stranezza da mezzo scemi. Ora per me le cose sono diverse e sopporto sempre meno la necessità che la mia vita dipenda dalla morte di altri esseri. Soprattutto che ne dipenda non soltanto in termini di mera sopravvivenza ma anche in quelli di superfluo, cioè di un piatto prelibato del quale potremmo fare a meno o di un capo di abbigliamento che serve soltanto per far sapere intorno che abbiamo quattrini da spendere. E’ un guaio questa mia non sopportazione, perché è il rifiuto di qualcosa che dura da centinaia di migliaia di anni. E per di più non si trasforma in un comportamento coerente, visto che probabilmente anche questa Pasqua mangerò un pezzo di agnello, ma in una vacua sofferenza per ciò che continuo a fare. Eppure penso che avesse ragione Pascal quando diceva non mi ricordo più dove che se cerchi Dio significa che l’hai già trovato. Io non è che cerchi Dio, purtroppo, quindi non l’ho trovato, ma cito il filosofo sul piano metodologico, per dire che se soffro per la morte delle bestie di cui mi nutro è possibile che quanto meno la fragilità di sentimento dell’età avanzata mi abbia fatto acquisire una diversa concezione del mondo. Non sopporto più le sofferenze degli animali, soprattutto quelle superflue degli allevamenti intensivi, dei circhi equestri, della ricerca scientifica che giustifica le torture più abiette, della caccia, dell’uccisione di specie che servono non al nutrimento di massa ma alle ubbie culinarie di pochi imbecilli che vogliono farlo strano. Se vedo gli elefanti in cattività che scuotono ossessivamente il capo come è caratteristico della loro sofferenza nei giardini zoologici e nei circhi, mi sembra di soffrire insieme a loro. Se vedo un imbecille che al mare cattura un polpo e, sotto gli occhi ammirati di moglie e figli, lo sbatte sugli scogli “per ammorbidirlo”, sento l’impulso barbaro e sbagliato di fargli fare la stessa fine. Ecco, mi auguro per questa Pasqua e per i suoi simboli di resurrezione che in una estensione generale di cultura cattolica coinvolgono anche i non credenti, che se mangeremo l’agnello ce ne derivi almeno un piccolo senso di colpa. Meglio di niente.
Nato nel 1951, ottobre (bilancia, ma come tutti quelli della bilancia non crede nell'oroscopo). Giornalista dal 1973. Scrive anche altra roba. Ma gratis, quindi non vale.
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