Ero un ragazzino, era estate, facevo il garzone in un supermercato a due passi da una spiaggia. Domenica d’agosto. Stavo per prendere servizio alle sette del mattino quando, entrando dal retro del negozio, mi cadde l’occhio su una vecchia vespa appoggiata ad un muretto a secco, un ferro vecchio nel quale intuii qualcosa di familiare. Mi ci avvicinai e la osservai con più attenzione: era la motoretta di un mio carissimo amico e compagno di scuola, che però abitava da tutt’altra parte. Il mio amico aveva una vera fissa per la guerra del Vietnam e le lamiere della Vespa erano tutte incise da frasi e motti che rappresentavano l’iconografia di quella storia: non ce n’erano altri, in giro, di scooter così personalizzati. Pensai che potesse aver fatto compagnia per la notte a qualche ragazza del posto, però la moto sembrava proprio abbandonata e mi parse più probabile che gliel’avessero rubata. Ma non c’erano i telefonini e non potevo chiamarlo. All’una, quando uscii per la pausa dal lavoro, la Vespa era doveva l’avevo trovata cinque ore prima. Mi frugai le tasche, trovai un gettone, salii al piano superiore del centro commerciale e da una cabina composi il suo numero di casa. Mi rispose l’anziana zia. Chiesi del mio amico e la zia, con voce affranta, mi rispose che non era a casa: era in giro assieme ad alcuni amici per battere palmo a palmo la zona, in cerca della moto che gli era stata rubata. “L’ho trovata io la moto!”, la interruppi, trionfante. Le spiegai che avrei tenuto d’occhio lo scooter e non mi sarei mosso finché il nipote non sarebbe venuto a riprendersela. Lei ci mise un po’ a capire, poi mi assicurò che avrebbe riferito della mia telefonata all’interessato, non appena sarebbe tornato a casa. Non c’erano i telefonini e le comunicazioni avevano ritmi più lenti. Saltai in groppa alla Vespa, inchiodata all’asfalto sul cavalletto centrale, ad aspettare gli eventi. Vedevo una lama di mare, di fronte a me, e qualche centinaio di metri della strada litoranea che da Cannigione porta a Palau. Saranno state le due del pomeriggio, l’aria era ferma e si sentiva l’eco lontana di schiamazzi e canzoni dalla spiaggia. Mi sfrecciò davanti un’auto – sono passati quasi trent’anni e non ne ricordo il modello – e vidi le teste degli occupanti, di scatto, simultaneamente, voltarsi verso di me, fissarmi, prima che l’auto si piantasse in uno stridio di gomme. Scesero in quattro e tra questi c’era il mio amico. Io scesi dalla sua Vespa sorridendo, ma lui non sorrideva manco per un cazzo. “L’ho trovata qua, stamattina…”, farfugliai. “Ho chiamato tua zia…”, aggiunsi. Ma lui a casa non era tornato e della mia comunicazione non sapeva nulla ( ve l’ho già detto che non c’erano ancora i telefonini?). Quindi, fino a prova contraria, per lui e i suoi amici il ladro potevo benissimo essere io. Realizzai in un attimo di dovere delle spiegazioni, che però in quel momento non potevo fornire. Non restava che appellarmi alla nostra amicizia. Il mio amico si riprese la moto e se ne andò, senza troppe parole e un po’ dubbioso sulla mia versione. E io rimasi là, fuori dal supermercato, dubbioso quanto lui, dubbio che mi rose dentro per tutto il turno pomeridiano di lavoro tra gli scaffali. Poi, quella stessa sera, quando la zia gli riferì della mia telefonata, fu lui a chiamarmi e tutto venne chiarito, tra le risate. La moto gliel’avevano rubata fuori da una discoteca, forse qualcuno che voleva solo farsi un giro. Quegli istanti da ladro, d’infamia ingiusta, sono sopravvissuti nella mia memoria. Avere addosso il sospetto di persone care, senza aver fatto nulla, è una forma di umiliazione tra le più violente che possano capitarti. Da quel giorno, ho ben presente la condizione di una persona fortemente sospettata eppure innocente. Ci si può trovare, a volte, al momento sbagliato nel posto sbagliato, ma non per questo si è colpevoli, anche se l’evidenza sembrerebbe indicare il contrario. Con gli anni, leggendo molte notizie di cronaca nera, quel ricordo mi torna alla memoria sempre più frequentemente. E con lui torna il dubbio. Perché si fa presto a sbattere in prima pagina furbetti del cartellino, falsi invalidi, presunti terroristi, sospetti corrotti o mafiosi. Io ricordo sempre che un sospettato è cosa diversa da un condannato e, prima, ci vuole un processo per stabilire se quella persona sia innocente o colpevole. Non sono le lungaggini della giustizia, sono le garanzie di un paese civile.
Nato nel 1971 ad Arzachena ed ivi smisuratamente ingrassato negli anni seguenti, figlio di camionista e casalinga. Titoli appesi alle pareti: laurea in Lettere moderne all'Università di Sassari, iscrizione all'albo dei giornalisti professionisti, guida nazionale di mountain bike, presidente della Asd Smeraldabike, direttore della testata Sardegnablogger. È stato redattore di tre diversi quotidiani sardi: dal primo è stato licenziato, gli altri due sono falliti. Nel novembre del 2014 è uscito il suo primo romanzo, "Cosa conta".
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