Prima di morire promise che mi avrebbe avvisato. Doveva lasciarmi i ricordi della sua vita millenaria. Invece, quando tornai, era tutto chiuso e la vicina mi disse che il “vecchio scemo” ormai lo trovavo al cimitero. Lo avevo conosciuto al manicomio di Rizzeddu in una specie di ispezione poco prima della chiusura. La tiravano per le lunghe perché avevano paura di applicare la legge Basaglia: non sapevano dove metterli, i malati. Lui mi aveva raccontato che apparteneva a una schiatta di immortali o giù di lì, perché poi morivano. Ma campavano molto. Moltissimo. E un mucchio di cose di Sardegna aveva cominciato a raccontarmele come uno che le avesse vissute.
Tanto che continuai a parlarci nella casa famiglia dove lo avevano messo e infine nel monolocale dove era andato a vivere da solo. Ogni tanto mi mostrava una pila di quaderni fascisti con balilla e legionari sulla copertina di davanti e la tabellina pitagorica su quella di dietro. Fitti fitti di scrittura, erano. “La mia lunga vita- mi diceva – Prima di morire te li regalo e ne fai quello che vuoi”. Chissà dove sono, adesso. Mi devo accontentare dei ricordi.
Lui, per esempio, il 5 maggio me lo raccontò così.
<<Cominciai a capire mio padre quando anche io mi trovai in una minoranza di incompresi che pensavo – e penso ancora – fosse di giusti.
Parlo di quei pochi che speravano che il giovane Napoleone riuscisse a conquistare l’isola a forma di sandalo. Quando vidi la sua corvetta battere in ritirata al largo della Maddalena, mi buttai in mare, cercando di raggiungerlo annaspando nell’acqua e urlando: “Mon empereur, arretez, s’il vous plait, retournez…”. I sabaudi non capirono perché chiamassi “imperatore” quell’ufficialetto corso di artiglieria e questo mi salvò la pelle perché mi presero per pazzo. Ma mentre mi coprivano di botte con il calcio dei fucili e le donne ridevano mentre fuggivo, pensai a mio padre e a quei suoi pochi compagni disperati e irrisi, eppure tanto felici nel loro sentirsi minoranza illuminata.
Lo rividi a Genova qualche tempo dopo, nei giorni del G8. Mi parve di sognare quando tra scoppi e urla distinsi una voce allegra che nella nostra vecchia lingua gridava le parole d’ordine dei sediziosi. Lo riconobbi, nonostante il viso coperto di sangue, tra alcuni black bloc che venivano portati verso un cellulare. In tutto quel tempo non aveva voluto imparare altre lingue, ma lo capivano tutti i suoi amici che venivano da ogni parte del mondo e anche gli uomini delle forze dell’ordine. Mostrai il mio tesserino al poliziotto che sembrava il più alto in grado, quello si mise sull’attenti e gli ingiunsi di consegnarmi il fermato.
-E’ un ricercato speciale, ora ci pensiamo noi.
Voltato l’angolo, gli levai le manette, gli pulii delicatamente il viso e lui capì che quel fazzoletto intriso in una fontana era una voglia di carezze. Mi sorrise.
-Sei diventato adulto in anni brutti, da allora non siamo mai stati dalla stessa parte.
E indicò con il viso il tesserino che ancora tenevo appeso al collo. Lo rimisi in tasca. Ora che non lo odiavo più, sentivo il peso di tutta la sua autorità serena e beffarda. Poi continuò.
“Salvo una volta . Se tu avessi nuotato più speditamente, se avessi raggiunto la corvetta, avremmo vissuto insieme una lunga avventura, sino a Waterloo…”
Mio padre era lì, su quella nave. E io non lo sapevo. Mi vide inseguirli a nuoto, impacciato dalla divisa sabauda che avevo tradito.
“Urlai chiamandoti, accorse Napoleone, si sporse al ponte di poppa e ti indicai a lui, stette lì con me a guardarti, incurante del rischio che qualche palla più lunga lo potesse raggiungere. Mi chiese se ti conoscessi, gli dissi che eri mio figlio. Parlavo nella mia lingua, ma mi capí perché mi mise una mano sulla spalla e mormorò: ‘Mi dispiace, non possiamo fermarci’. Sentivamo le tue urla, la tua invocazione, e non era stupito che tu lo chiamassi imperatore. Un’onda ti riempì la bocca, ti fermasti tossendo, ebbi paura. Mi voltai verso di lui in una muta richiesta di aiuto e lo vidi pallido che stringeva il parapetto con i pugni dalle nocche bianche per lo sforzo. Quando i pescatori sardi ti issarono vivo sulla loro barca, allentò la presa e senza parlare, senza guardarmi, si voltò e scese sotto coperta”.
Così mi disse mio padre. Io mi ricordo di quell’onda. Quando ebbi ordine dal ministro di polizia di sorvegliare il Manzoni, mi finsi suo amico per spiarlo. Nel ’21 mi mostrò certi versi che aveva scritto di getto e io, portandolo abilmente a fargli credere che fosse una sua idea, gli feci aggiungere “Come sul capo al naufrago l’onda s’avvolve e pesa…”. Fu il mio segreto omaggio all’Imperatore, infilato di soppiatto e custodito in eterno nella teca robusta di quel poema>>.
Nato nel 1951, ottobre (bilancia, ma come tutti quelli della bilancia non crede nell'oroscopo). Giornalista dal 1973. Scrive anche altra roba. Ma gratis, quindi non vale.
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