Mi sarebbe piaciuto parlare di sirene… me l’ero ripromesso, di farlo a ridosso della festa di mezz’agosto… ma non riesco a levarmi dalla testa neanche per un attimo, la storia di Antonio. Antonio Mottola, 19 anni appena. Strappato tre anni fa a una via crucis iniziata che era bambino, fra psicofarmaci, letti di contenzione, violenze delle istituzioni e delle psichiatrie che si fa fatica a raccontare, seguito e curato presso il Villaggio SOS di Vicenza, stava iniziando a sperimentare l’amicizia, il rispetto, il divertimento, la gioia, la libertà, la vita… Antonio, che con stupore anche di chi lo aveva preso in cura, riesce a viaggiare e andare a vacanza, insieme agli altri. Campeggio, montagna, mare… e chissà che non abbia visto anche lui, come Moha (Moha il saggio, Moha il folle…[Moha il folle, di Tahar Ben Jelloun – Ndr]), sirene… Tutto questo finito, stop. Un percorso di recupero spezzato quando compie 18 anni. Cosa succede? Succede che il suo psichiatra inizia a dirgli che per i maggiorenni non c’è posto nella comunità-famiglia. Ed è bastato l’accenno a quest’ipotesi a scatenare in lui il terrore: lasciare quella casa? Quale ricovero allora? Il ricordo della violenza della contenzione, del dolore, delle frustrazioni, degli isolamenti. Lui si spaventa, gli si butta addosso, che è reazione e richiesta d’aiuto. Qualcuno chiama il 113, e Antonio, che dopo una prima resistenza dice: “arrestatemi se ho fatto del male…”, non viene “normalmente “ arrestato. Viene legato alla barella, spedito in diagnosi e cura, ancora legato, riempito di farmaci… Ritorna in un percorso infernale. Subentra il magistrato che chiede parere al responsabile del servizio dove è trattenuto, chiede se Antonio è pericoloso socialmente, quasi quesiti propri di una perizia psichiatrica e non di una relazione sullo stato di salute. E se pure Antonio non ha mai commesso nessun atto contro cose e persone fuori dai luoghi della cura, lo psichiatra risponde che è “incapace di intendere e di volere e pericoloso socialmente”. Scatta l’articolo 206, la famigerata misura di sicurezza provvisoria, retaggio arcaico del codice penale. Si aprono le porte del manicomio giudiziario. Poi anche il giudice di merito chiede perizia psichiatrica… E fra cartelle cliniche, relazioni, anamnesi, infine la sentenza di condanna a quattro anni di misura di sicurezza lo ha chiuso in un ospedale psichiatrico giudiziario, una sentenza che di fatto ignora le relazioni di chi negli ultimi anni lo ha seguito. Oggi Antonio è nell’Opg di Reggio Emilia, dove non comprende ( e come potrebbe essere diversamente?) perché è lì. Ha di nuovo perso tutto. Ha perso, soprattutto, le persone di cui si fidava. E la sua condizione peggiora in maniera drammatica. Una storia atroce, forse uguale a troppe altre che non hanno voce. Ci vorrebbero pagine e pagine per raccontare le “insensatezze, liceità, imperizie, colpe” che tessono la trama di tutta questa vicenda, e il perverso gioco di rimandi fra giustizia e psichiatria che continua a negare, con indicibile violenza e a chi più ne avrebbe bisogno, le tutele e il rispetto di diritti di cui ogni cittadino è titolare. Ma c’è un nodo, fondamentale, che gira tutto intorno a norme del nostro codice penale, ancora Codice Rocco. Quelle che parlano di incapacità e pericolosità sociale, che nascono con le teorie di Lombroso sulla base delle stesse teorie che distinguevano le razze. Al giudice si chiede di prevedere il futuro ( farà ancora del male?), mentre l’incapacità di intendere e di volere fa scomparire la persona come soggetto di diritti, rendendone la vita indegna di essere pronunciata. Perché, ci piaccia o no, questo è. Non esiste più Antonio la sua storia, ma solo la malattia e la (presunta) pericolosità. Che se fosse stato giudicato in base al reato commesso, il polso fratturato del suo psicologo-educatore per la reazione sconnessa alla notizia per lui angosciosa, non sarebbe stato condannato a nulla. Il nodo è tutto lì. La sottrazione al diritto di essere giudicato secondo le regole di uno stato democratico. La negazione del diritto di essere persona… Per via di una perizia psichiatrica. Ma sappiamo cos’è una perizia psichiatrica? Lo spiega bene Peppe Dell’Acqua, lo storico direttore del centro di salute mentale di Trieste, che segue l’intera vicenda, e si ostina a non voler abbandonare Antonio, poco più che un ragazzino, al nulla al quale lo vogliono condannato: parliamo di opinioni di uno psichiatra e della committenza di un giudice. Una dimostrazione? Nel famoso caso Cogne erano stati nominati tre gruppi di periti, tre per la difesa, tre per l’accusa, tre dal giudice. Ebbene le tre commissioni hanno concluso ognuna secondo quella che poteva essere l’utilità del committente: capace, incapace, semi-inferma di mente. Per capire di cosa parliamo. Per tirare fuori Antonio dall’ospedale psichiatrico, la difesa e gli operatori che lo hanno seguito hanno presentato un programma terapeutico riabilitativo individuale, che il magistrato ancora rigetta… Se volete sapere perché, e conoscere dettagli di tutta la storia, andate a vedere il video dell’audizione di Dell’Acqua alla commissione per la tutela dei diritti umani del Senato ( è pubblica, sul sito del Senato). Andate fino in fondo, anche se viene da piangere e vergognarsi. Comprendo. Ho dovuto fare un grande sforzo anch’io, quando ho aperto la cartella con la storia di Antonio Mottola, per provare ad andare fino in fondo. Per lo strazio. E permettete… non mi è mai piaciuto ragionare per generi, ma non riesco a togliermi dalla testa il fatto che il magistrato che ha deciso per Antonio sia donna, e che nulla abbia visto, oltre la razionalità astratta delle norme. Tanta inquietudine di fronte all’idea della follia, da non potere che disciplinare, costringere nella camicia di forza del formalismo giuridico, che nulla vuole sapere della vita e della sofferenza.
L’articolo è apparso sul sito remocontro con il titolo “La vera follia nei rimbalzi fra giustizia e psichiatria” .
Francesca De Carolis
Francesca de Carolis, giornalista, scrittrice, ex TG1, ex Radio 1. Attualmente si occupa di carceri, nella speranza di contribuire a limare le grate anche della nostra mente.
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