Quella che vedete nella foto è Piazza Mercato. Si chiama così perché sorge nello spazio in cui c’era il vecchio mercato civico. All’apice della sua decadenza strutturale e commerciale, amministratori poco lungimiranti decisero di raderlo al suolo, il vecchio mercato, sostituendolo con questo autentico abominio architettonico. Uno spazio post moderno nel cuore della città vecchia. Un pugno in un occhio che, con il passare del tempo, è divenuto l’emblema di una città, Olbia, incapace di porre un freno alle idee scellerate, alle scelte sbagliate, alle bizzarrie dei suoi amministratori. E ancora oggi, quando trascino le mie chiappe sotto quel tetto orrendo e pure pericoloso (ogni tanto si stacca una lastra di cristallo) mi torna in mente il vecchio mercato. Non era certo bello per l’architettura, il mercato civico di via Acquedotto. Era una costruzione abbastanza anonima che mostrava con indifferenza i segni del tempo. Era vecchio e scassato ma aveva un cuore pulsante. Per decenni il mercato è stato un punto di aggregazione dove incontrarsi, parlare, ridere, scherzare. E comprare. Tra il commerciante e il cliente si creava sempre un rapporto di confidenza, quasi di complicità. Si avvertiva, in quell’edificio al centro della città, il senso di appartenenza a una comunità. Lo si avvertiva, forte e chiaro.
Negli anni ’70 ho vissuto un certo periodo della mia infanzia con nonna Mallena, nel suo appartamento in una casa popolare di cui ricordo distintamente l’odore di cavolo bollito che spesso opprimeva l’ingresso, l’androne e il mio olfatto. La mia avversione verso tale ortaggio dev’essere certo una conseguenza delle mie corse sulle scale in apnea per raggiungere il piano superiore, farmi aprire la porta e, finalmente, respirare. Ho pensato che quell’odore di cavolo bollito avrebbe potuto scatenare in me una valanga di ricordi e portarmi alla ricerca del mio tempo perduto. Però Proust partiva avvantaggiato: lui annusava la madeleine, io avrei dovuto fare un aerosol di cavolata.
Comunque sia, nonna Mallena faceva la spesa, quella seria, al mercato. Ci arrivavamo a piedi, mano nella mano, di buon mattino per trovare i prodotti migliori. Affrontata la salita di via Acquedotto passavamo accanto al palazzo delle poste e, finalmente, ecco l’edicola. Dico questo perché, in fondo, il mio vero obiettivo, all’epoca, non era tanto il mercato quanto il “Topolino” che nonna Mallena avrebbe comprato per me. Ero una specie di tassa sul mercato.
Una volta all’interno, cominciava la serissima ispezione dei prodotti in esposizione. La nonna non si limitava a chiedere. Toccava, annusava, vivisezionava con lo sguardo ciò che intendeva comprare, saggiava lo sguardo del venditore ponendo domande apparentemente banali. “Sicuro che sia fresco? Posso fidarmi? Guarda che se non è buono te lo riporto”. Funzionava così. Nonna Mallena non aveva alcuna intenzione di spendere male i suoi (pochi) soldi e, a sua volta, il commerciante sapeva benissimo che eventuali defaillance sarebbero state punite con un embargo sine die. All’interno, vigeva la regola dello scambio di informazioni. Si rincorrevano voci di angurie leggendarie andate, purtroppo, esaurite ma che presto sarebbero tornate. Ci si fermava a chiacchierare (lei) e a subire violenti pizzicotti sulla guancia (io). Ciò che c’era da sapere transitava in quel vecchio edificio al centro della città, disordinato e sporco, dove si comprava e si vendeva ma, soprattutto, ci si incontrava e, discorrendo, ci si guardava negli occhi.
Il mercato civico, anni dopo, cominciò a fare i conti con i grandi cambiamenti del commercio. Grandi, in fondo, era la parola chiave. Grandi società, grandi superfici, grandi guadagni. Di fronte all’avanzare dei supermercati prima e della grande distribuzione poi, il mercato cominciò a subire un drastico calo di appeal. Credo che l’ultimo tentativo di tenerlo in vita fosse la sostituzione della copertura. Arrivò una tettoia trasparente (fosca profezia) che trasformò il mercato in una specie di serra ammorbante. Il colpo di grazia.
Il vecchio mercato rimase per anni un edificio diroccato finché una giunta di centrodestra decise di demolire tutto per dar vita a un faraonico e costosissimo progetto. Una modernissima piazza coperta in acciaio e vetro con sottostante, immancabile parcheggio. Per evitare che la trasparenza del tetto venisse messa a repentaglio dai temibili uccelli cagatori, fu persino realizzato un impianto di diffusione che riproduceva suoni di rapaci. Forse erano aquile, forse avvoltoi. Con queste urla, sparate periodicamente a tutto volume, hanno dovuto convivere i fortunati che si affacciano sulla nuova piazza Mercato.
Inutile dire che il parcheggio, terminato dopo mille difficoltà e una dura lotta con la falda acquifera alla quale nessuno aveva chiesto il permesso, non funziona. L’ingresso per le auto ha le misure sbagliate. Gli ascensori che avrebbero dovuto traghettare la gente al parcheggio sono un ricettacolo di rifiuti. La tettoia di cristallo ha dato più volte segni di cedimento costringendo le autorità a transennare la piazza, tenuta sotto stretta osservazione dopo che una lastra di cristallo si è staccata dal tetto ed è precipitata, senza fortunatamente colpire passanti.
Che sia il maleficio del vecchio mercato? Che il vecchio cuore della città abbia deciso di farla pagare cara agli ispiratori dell’obbrobio? Intanto leggo che anche la grande distribuzione è entrata in crisi, sembra che il negozio di vicinato stia tornando di moda. Chissà mai se qualcuno avrà il coraggio di radere al suolo questo maledetto e inutile hangar e ricostruire, al suo posto, il vecchio mercato. Nonna Mallena, ne sono certo, sarebbe d’accordo con me.
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