Appaiono sul palcoscenico sfocate, come nelle vaghe luci di un sogno, mamma Mariuccia e zia Lidia. Poi in primo piano appare lui, Enrico.
Bibì per mamma e zia. Snello, elegante, di facile ma meditata parola.
Ha una valigia posata sul pavimento e un’altra sul letto – quella di un lungo viaggio, avrebbe cantato Julio Iglesias qualche decennio dopo – e sbuffa per la sua incapacità nel sistemarla, quella valigia, confermandosi imbranato nella difficile arte di riporre ogni indumento al posto giusto.
Enrico è un giovane Berlinguer, ritratto nel momento della partenza, definitiva, verso Roma e verso il Partito. Il luogo in cui Berlinguer commenta, impreca e recrimina è la Sassari di fine estate dell’anno 1944.
Mamma e zia Lidia sono invece solo dei fantasmi. La prima è mancata molti anni prima e sa poco della storia recente del figlio e dell’Italia dilaniata dalla guerra civile; zia Lidia invece è morta poco prima e sa delle ambizioni politiche di quel nipote appassionato di poker e filosofia.
Quelli che avete letto sono solo pochi cenni essenziali della pièce La partenza di Enrico, andata in scena il 25 maggio scorso al Teatro comunale Astra con la compagnia Teatro Sassari.
L’ha scritta, ispirandosi al suo romanzo di prossima pubblicazione La guerra di Pasca, Cosimo Filigheddu. La regia è di Mario Lubino, gli interpreti sono Alberto Lubino, Teresa Soro e Alessandra Spiga.
La recensisco per manifestare la mia riconoscenza all’autore, al regista e ai tre attori che hanno così nitidamente interpretato quel decisivo passaggio nel percorso del tanto amato Berlinguer, nel momento in cui Sassari e tutta l’Italia lo celebrano nel centenario della sua nascita. Li ringrazio, per avermi fornito la risposta alla domanda di tutta una vita.
Lo spettacolo dura poco più di mezz’ora.
Incredibile, come una penna e una regia siano stati capaci di raccogliere tutto il piccolo mondo sassarese e le verità universali in poco più di trenta, intensissimi minuti di racconto, nei limiti di uno scenario essenziale e completo al tempo stesso.
Il giovane Enrico parla tra sé e sé della partenza. E quella valigia così ostile, quasi inespugnabile, è la metafora di una scelta dolorosa, della quale il ventiduenne Berlinguer non sembra essere convinto fino in fondo.
Cosa ci sarà dentro quella valigia, cosa gli riserverà il futuro?
Enrico riflette su quel che sta per lasciare, sull’amore per mamma e zia non più a questo mondo, ammette pur nel rapporto conflittuale la sua ammirazione per papà Mario: immagina cosa avrebbero fatto e pensato i familiari al suo posto, chiama Socrate e Croce a soccorrere le sue incertezze, implorandone una consolazione filosofica che si spinge sino al limite estremo della ricerca di risposte sulla morte e dell’esistenza dell’aldilà.
Alberto Lubino, nella sua prova, ha interpretato magnificamente il dilemma interiore e i dubbi del futuro leader comunista, imprimendo loro una fisicità fatta di repentini spostamenti e improvvise soste che ricalcano il filo tortuoso dei suoi tentennamenti
Alle sue spalle, gli spiriti di Lidia e Mariuccia ascoltano e commentano. Loro possono sentire lui, lui non può sentire loro.
Ma il soliloquio di Enrico si interseca, si incrocia e si compenetra con le chiacchiere di Lidia e Mariuccia, due fantasmi niente affatto tetri ma, piuttosto, combattivi e col gusto per la polemica e il contraddittorio.
L’intesa sul palcoscenico tra Alessandra Spiga e Teresa Soro è, va detto, uno spettacolo nello spettacolo: una superba prova di recitazione “complementare”, se mi è concesso l’aggettivo.
Dicevo della domanda di una vita.
Quando Berlinguer è morto io avevo tredici anni. Nella mia vita, ho cercato costantemente di comprendere come quest’uomo potesse avere calamitato tanta unanime stima e altrettanto affetto, anche dai suoi antagonisti politici.
Ho cercato ogni sua intervista, ogni sua apparizione in questa o quella trasmissione televisiva, ogni battuta. Meno mi sono affidato alle biografie: volevo sentire la sua voce, le sue risposte. Mi restava, immutata, la sensazione di non essere stato in grado di cogliere l’essenza di quel grandioso sentimento popolare.
Per anni, ho frequentato un anziano signore ozierese emigrato negli anni quaranta in Francia e mai più ritornato in Italia, se non per le ultime stagioni della sua vita.
Pur lontano dalle cronache italiane, viveva nel culto di Berlinguer.
E lui non sapeva spiegarmi bene il perché, se non indicando quel profondo senso di umanità che, oltre la politica pura, il personaggio irradiava.
Certo, per dirla con Gaber Qualcuno era comunista perché Berlinguer era una brava persona e perché Andreotti non era una brava persona. Ma non mi bastava.
La partenza di Enrico mi ha fornito, in soli trenta minuti, la risposta mancante.
Quel giovane uomo sballottato tra ricordi, affetti, nostalgie e valori è un’anima tenerissima, di cui ci si innamora. Quel giovane uomo che zia Lidia spinge verso Roma nonostante le preoccupazioni di mamma Mariuccia, perché rinunciando al viaggio resterebbe “un ottimo sassarese ma un mediocre italiano”.
Quel giovane uomo che non vuole essere chiamato Bibì, ma non avrebbe mai avuto il coraggio di dirlo in faccia alle donne di casa.
Una volta Berlinguer dichiarò di andar fiero della sua coerenza, nell’essere rimasto fedele a certi principi della sua giovinezza. Da quel volto pensoso e malinconico, direi che sia rimasto fedele anche alle sue umanissime debolezze.
Non avessi visto La partenza di Enrico, sarei ancora in cerca di una risposta.
Nato nel 1971 ad Arzachena ed ivi smisuratamente ingrassato negli anni seguenti, figlio di camionista e casalinga. Titoli appesi alle pareti: laurea in Lettere moderne all'Università di Sassari, iscrizione all'albo dei giornalisti professionisti, guida nazionale di mountain bike, presidente della Asd Smeraldabike, direttore della testata Sardegnablogger. È stato redattore di tre diversi quotidiani sardi: dal primo è stato licenziato, gli altri due sono falliti. Nel novembre del 2014 è uscito il suo primo romanzo, "Cosa conta".
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