Se il teatro dell’assurdo irrompe nella farsa etnica o è un pasticcio o è una svolta. Ma vista la macchina drammaturgicamente calibrata che Mario Lubino ha costruito con questo suo “Il giudice”, si può dire che la commedia, rappresentata con grande successo al teatro comunale Astra dalla Compagnia Teatro Sassari, segna un promettente momento di transizione nel teatro sardo.
“Il giudice”, di cui l’autore cura la regia e interpreta il protagonista, non è tout court un dramma beckettiano o ioneschiano reso in lingua locale, neppure una commedia di genere etnico-comico che rinunci agli stereotipi farseschi per affrontare i temi alti della giustizia: è l’espressione di un nuovo genere dove una tragica e sofferente mole onirica si riversa nella realtà dell’esistenza – e nel suo realismo teatrale – amalgamandosi con gli strumenti espressivi e linguistici usati per veicolarla, talvolta italiani e talvolta sassaresi. Si creano così, nei dialoghi serrati e insensati, frequenti effetti umoristici: la psicologia dell’assurdo varca allora la quarta parete e piomba in platea, dove un sottile senso di colpa pervade lo spettatore che ride della tragedia vissuta dai personaggi.
La dimensione concreta e insieme metafisica è resa magistralmente dal valore aggiunto di questo allestimento, cioè le scenografie di Igino Panzino, uno dei più interessanti rappresentanti del panorama artistico sardo, alla sua prima effettiva prova in questo campo e qui autore di una rappresentazione plasticamente minimalista del concetto di galera.
La commedia in due atti è ambientata nella prigione dove da sei mesi Antonio Usai è detenuto per omicidio pur nella generale e concreta consapevolezza dell’impossibilità che lui possa avere commesso quel delitto. Quando ai fatti evidenti si aggiunge la confessione del vero assassino, il magistrato tenta di convincere Usai a dichiararsi colpevole perché, nascondendo l’errore del giudice, salvi dal discredito il concetto stesso di giustizia. Si associa in quest’opera di persuasione il carceriere, per bonaria complicità nei confronti del poveretto al quale consiglia di non andare mai contro il potere. L’assurdo è ribadito dal passante che per un irragionevole equivoco lo aveva catturato: accusa Usai della sua innocenza sostenendo che il proprio atto eroico lo aveva rappacificato con la moglie dalla quale stava per separarsi, l’imputato sarà quindi un egoista se non sacrificherà il collo al boia. Il vero colpevole che confessa il delitto con sportiva e superficiale leggerezza, si eclissa scuotendo disinteressato le spalle quando il magistrato lo manda via. E infine la moglie di Usai, che, incitata dal giudice il quale promette vantaggi materiali, tenta di convincere il marito ad accettare la prigione. Sino a un finale drammatico e grottesco che corona il senso pieno di questa che con un ossimoro potrebbe definirsi “farsa drammatica”.
La certosina regia di Mario Lubino ha reso tutto perfetto e nella sua severità di tempi, movimenti e toni non ha risparmiato alcun interprete, compreso sé stesso, valorizzando ed esaltando già conclamate abilità attoriali. Ottima quindi la resa dei personaggi di Antonio Usai, che Mario Lubino ha impersonato in una magistrale alternanza di ira e dolore, unico richiamo alla ragione comune nell’aberrante contesto della vicenda, e della signora Usai, interpretata da una bravissima Alessandra Spiga che rende in un riuscito sdoppiamento il ruolo di vittima cosciente e di intrigante carnefice, subdolo, tragico e comico.
Ma la parte centrale se l’è probabilmente ritagliata Alberto Lubino con la sua angosciante interpretazione del giudice, perfetta sul piano tecnico, concreta nei particolari, eppure soffusa di quel senso immateriale e cervellotico tipico del teatro dell’assurdo e difficilissimo da rendere in una recitazione rigidamente realistica. Insomma, nel suo insensato egoismo, Alberto Lubino presenta il giudice come il più vero dei personaggi, almeno sul piano etico, con questa sua ostinata difesa della reputazione della legge, costi anche la galera per un innocente.
Il secondino di Michelangelo Ghisu sembra costruito su misura per la consueta capacità di questo attore di rendere in maniera eccellente l’anima tragica e comica della maschera popolare, qui aumentata nella dimensione del paradosso. Pasquale Poddighe e Paolo Colorito, rispettivamente l’ “eroe” che cattura l’innocente e lo svagato vero colpevole, chiudono con le loro efficaci rese dei personaggi il percorso grottesco di questo dramma comico.
Da osservare infine come le luci impeccabili di Tony Grandi, plastiche o soffuse a seconda degli attimi, abbiano valorizzato, fondendosi con esse, le belle scenografie di Panzino.
Nato nel 1951, ottobre (bilancia, ma come tutti quelli della bilancia non crede nell'oroscopo). Giornalista dal 1973. Scrive anche altra roba. Ma gratis, quindi non vale.
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