Ieri consultavo in una biblioteca un cumulo di carte degli ultimi decenni dell’Ottocento quando mi sono imbattuto in un singolare segnalibro lasciato da qualcuno chissà quanti anni fa. Era un frammento di “tessera del pane” che portava la data del 1947. L’ho fotografato prima di consegnarlo alla bibliotecaria. Non è niente di prezioso. Immagino che ci siano ancora molte testimonianze documentali della Tessera Annonaria introdotta per razionare i viveri in guerra e rimasta in uso, mi sembra, sino a tre o quattro anni dopo la fine del conflitto, durante un lungo dopoguerra la cui storia più o meno in tutta Italia è simboleggiata soprattutto dalla fame. Penso all’ignoto sassarese che ha usato come segnalibro quella “tessera del pane”. Se l’ha utilizzata così, significa che non era più necessaria. Quindi non sono più gli anni del dopoguerra. Ma non sono tanto lontani se quel tale possiede ancora quella che ormai è carta straccia. E inoltre non devono essere ancora anni di spreco se, anziché buoni fogli bianchi, usa quella ormai inutile carta allo scopo di segnare nel librone dell’Ottocento le tappe della sua misteriosa ricerca. Insomma, il mio predecessore è uno che ha conosciuto quella Sassari in cui non c’era la certezza del cibo. E ne ha ancora un ricordo vivo. Ha vissuto gli anni in cui la scampagnata fuori porta serviva soprattutto a tornare con il cappotto che nascondeva pezzetti di formaggio involto alla meno peggio, tocchi di pane prodotto clandestinamente o altri simili lussi. Era fame. I poveri naturalmente ne soffrivano di più, ma era una fame abbastanza democratica, perlomeno dalle venature interclassiste. Ho letto il diario di una donna allora esponente della più ricca e potente borghesia cittadina che alla data del 23 dicembre del 1943 (i tedeschi dopo l’8 settembre erano già fuggiti in Corsica, la Sardegna faceva parte del Regno del Sud del re fuggitivo e quindi per noi la guerra era praticamente finita in anticipo di un anno e passa) parla con l’acquolina alla bocca del rientro del marito appunto da una passeggiata verso le campagne di Sorso e Sennori dove aveva trovato del vino, del formaggio, verdura “e altre leccornie che renderanno appetitoso il nostro Natale”. All’uscita vedo uno dei mille immigrati divisi agli angoli della nostra felice città. Tende ai passanti un bicchierino di plastica dove tintinnano delle monetine e dice la frase che i suoi compagni già più esperti gli hanno insegnato a memoria prima di uscire dal centro di accoglienza per la quotidiana ricerca di sostentamento: “Voglio panino”. Non so se non usi un condizionale di cortesia perché non glielo ancora insegnato o perché quella del pane è una volontà assoluta, vitale, feroce, che non ammette cortesie di sorta. Mi sento un po’ coglione perché mi viene un pensiero da “Libro Cuore”, come lo chiamavamo alle elementari -Ecco, quello non ha bisogno di una tessera del pane trovata casualmente in biblioteca per immaginare che cos’è la fame.
Nato nel 1951, ottobre (bilancia, ma come tutti quelli della bilancia non crede nell'oroscopo). Giornalista dal 1973. Scrive anche altra roba. Ma gratis, quindi non vale.
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