M’infilo tra la folla del supermercato, mattinata del 24 dicembre. Imbocco la corsia che più rapidamente mi porti al banco salumi e trovo impalato davanti ai sottaceti un tizio che conosco, cui la fortuna da qualche tempo ha voltato le spalle.
Tiene il cellulare incollato all’orecchio destro e urla istruzioni per la cena della vigilia al misterioso interlocutore. Il suo tono è fastidiosamente alto, oltre i limiti dell’educazione. Mi fermo in quella stessa corsia intasata di carrelli e sporte per cercare non mi ricordo che cosa. Sono accanto a mister Decibel e non posso fare a meno di ascoltare i suoi ordini perentori.
“Noooo, ti ho detto che le aragoste me le sto facendo portare da Alghero, non prendere iniziative….le ostriche? Devi solo passare a ritirarle in pescheria, ti aspettano. Lo champagne lo hai messo in fresco, come ti avevo chiesto? Bene amò, io prendo due cosette al volo e torno a casa, per soddisfare trenta invitati bisognerà metterci subito al lavoro. Allora, riepiloghiamo le portate che dobbiamo preparare…”.
Nella corsia si incrociano gli sguardi di una decina di persone che, più o meno, conosco tutte. Il paese è piccolo, la gente mormora e in certi sopraccigli alzati leggo sorpresa, perché al tizio gli affari sembra vadano storti da un pezzo. Non si capisce come possa così sfarzosamente festeggiare, data la sua condizione.
Lui, nel frattempo, sta impartendo disposizioni sul menu di terra e dice di aver ordinato un prosciutto che è “la fine del mondo”.
Poi succede l’irreparabile.
Lo smartphone appiccicato al suo padiglione auricolare squilla. È uno di quei trilli isterici dalla frequenza rapidissima, finito un drin ne inizia subito un altro e, come se non bastasse, il volume della suoneria è così sguaiato che reggerebbe il confronto con quello delle campane della chiesa, alla domenica mattina. Ci voltiamo tutti verso di lui.
Istintivamente, il tipo porta il display davanti agli occhi poi si guarda attorno e capisce di essere fissato: arrossisce e fila via senza avere risposto alla chiamata. Lo vedo proprio lasciare il supermercato, dribblando la fila alle casse come se scappasse. Quasi certamente, la conversazione al telefono sulla cena della vigilia era solo immaginaria, nel senso che dall’altra parte del cellulare non c’era nessuno.
Quella chiamata inattesa ha svelato il bluff e, se dubbi si potevano avere, la reazione dell’interessato non poteva lasciare spiragli per altre spiegazioni. Sul momento ci rido, ma guarda tu che gente si trova in giro, poi sulla strada di casa ci ripenso.
Forse simulare la normalità, ostentarla platealmente, per quell’uomo era il modo per dimostrare alla comunità del supermercato di non essere uno sconfitto o un fallito senza speranza, per fare sapere a tutti che la sua vita procede normalmente e che lui – alla faccia di chi lo vorrebbe sul lastrico – si può permettere gli stessi lussi del luminoso passato.
Messa a fuoco la situazione, quello squillo guastafeste ora mi causa un inspiegabile senso di colpa, grande quanto l’umiliazione subita dall’autore della messinscena. Vorrei chiedergli scusa per essermi trovato là in quel momento, ad ascoltarlo mentre recitava la parte dell’uomo felice. Cui la vita non è affatto sfuggita di mano, come si dice in giro.
Nato nel 1971 ad Arzachena ed ivi smisuratamente ingrassato negli anni seguenti, figlio di camionista e casalinga. Titoli appesi alle pareti: laurea in Lettere moderne all'Università di Sassari, iscrizione all'albo dei giornalisti professionisti, guida nazionale di mountain bike, presidente della Asd Smeraldabike, direttore della testata Sardegnablogger. È stato redattore di tre diversi quotidiani sardi: dal primo è stato licenziato, gli altri due sono falliti. Nel novembre del 2014 è uscito il suo primo romanzo, "Cosa conta".
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