Sto scrivendo un altro romanzo. “Maledizione!”, diranno i miei venticinque lettori. E lo so che non sono contenti, però così è. Ma voglio raccontare di un passaggio che mi ha interrotto il fluire. Nella storia mi andava di affrontare una questione sociale contemporanea. Cioè, non solo contemporanea, diciamo però particolarmente dibattuta ai giorni nostri, un problema di diritti, prevaricazioni, inclusione, parità, generi. Roba così, insomma, non vi dico quale, di preciso. Non è che volessi porre il problema, era il problema a porsi nella vicenda narrata. Per intenderci, ma non è il caso in questione, mettiamo che nell’intreccio a un certo punto bisogna che un uomo ammazzi una donna soprattutto per affermare la propria superiorità di maschio e che avverta la violenza come una necessità dolorosissima, perché lui amava quella donna, almeno nella sua percezione del rapporto. E’ il classico caso di femminicidio. Come lo affronto? Lo tingo di sociale, faccio un capitolo – o una pagina, o quello che è – di esplicita denuncia, magari brutale, che vada potente allo stomaco di chi legge senza tanti giri e imbastisco il ragionamento perché il pubblico non si distragga? Oppure gli imprimo una forma cesellata, il fatto rimane ma lascio che sia il lettore a definirlo, a incasellarlo in una categoria, se vuole, e io bado al disegno lessicale, alle emozioni, a esprimere nella narrazione oggettiva tutta la ferocia o tutto l’orrore del narrante, a seconda che sia l’assassino o l’assassinata. Cioè, faccio denuncia magari con parole poco curate ma chiare e di me, nelle future presentazioni, la persona con cui “dialogherò” potrà dire che ho urlato con forza una delle piaghe della società. Oppure scrivo un po’ di righe ben curate e il lettore tra sé dirà, “che bel passaggio!”, magari se lo rilegge pure, ma non potrà andare in giro a dire che sono un potente scrittore alla moda. Dice: e non puoi fare tutte e due le cose: una pagina di esplicita denuncia ma che sia anche formalmente molto curata, bella, piacevole da leggersi e che susciti emozioni non soltanto risapute bensì anche particolari, personali, originali. Io non ci riesco. Mi consola il fatto che a mio avviso non è che siano molti quelli che ci riescono. Siccome non mi metto mai in poco e punto sempre a esempi di quelli che non si scherza, mi sono ricordato che molti anni fa avevo letto un romanzo di cui tutti conoscono l’esistenza e che pochi hanno letto davvero, “Fermo e Lucia”, cioè la prima stesura de “I promessi sposi”. Ho ritrovato il libro nell’edizione Fabbri dei primissimi anni Settanta di quando lo avevo letto e ho ritrovato anche il passo che all’improvviso aveva preso a frullarmi in mente. E’ quello in cui Lucia, saputo che don Rodrigo voleva impedire il matrimonio con Fermo (il futuro Renzo), rivela le molestie che aveva subito da quel tale. Nella prima versione il racconto è in prima persona, esplicito, Lucia usa parole forti, in un virgolettato lungo una pagina si addentra in particolari scabrosi, descrive con efficacia dialettica la protervia cinica del signorotto, descrive sé stessa come una delle tanti lavoranti di filanda costrette a scegliere se difendersi o cedere. Nella versione che si studia a scuola, invece, le parole dirette sono poche e allusive, il racconto è lasciato al narrante, cioè lo scrittore stesso, a Lucia si conserva il ruolo angelicato e separato che manterrà in tutto il romanzo, sino al lieto fine. La prima versione è di una indubitabile efficacia e universalità, Lucia parla come parlerebbe ora un giornalista che, in base alle testimonianze e ai rapporti delle indagini, racconta gli atti che avevano preceduto l’esplosione di violenza di un uomo contro una donna. La seconda versione, quella de “I promessi sposi”, non è giornalistica, è bella. Oppure la Monaca di Monza, raccontata senza infingimenti e ipocrisie in “Fermo e Lucia”, persino in un colloquio con Lucia dove l’indole vivacemente trasgressiva di Gertrude rischia di rivelarsi quando Lucia entra nei particolari delle molestie subite. In parole povere (le mie), alla monaca quasi scappa detto: Ma perché non ci sei stata? Così lo accontentavi e te lo toglievi di mezzo. Cosa pretendevi, che ti sposasse? E ti aspetti che Manzoni commenti: Brava, tu! E se quella ci stava poi io che cosa mi scrivevo. Insomma, niente male, efficace, drammatico, persino, nel dramma, una venatura ironica appena fatta balenare. Ne “I promessi sposi”, invece, è soltanto “La sventurata rispose”. Cioè il sublime nella letteratura. Cosa scegliere, dunque? Boh, meno male che io a fare una pensata come “La sventurata rispose” non ci sono buono e quindi, comunque la metterò, la mia non sarà una ricerca del più bello ma del meno brutto. Il che, oltre a essere istruttivo, mi solleva da molti problemi
Nato nel 1951, ottobre (bilancia, ma come tutti quelli della bilancia non crede nell'oroscopo). Giornalista dal 1973. Scrive anche altra roba. Ma gratis, quindi non vale.
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