All’ultima lezione di storia, al corso serale, ho proiettato un documentario sulla vita della gente comune durante il medioevo. Non la vita di papi, re, condottieri, eredi al trono, artisti di corte, no, la vita degli ultimi, apparsi e scomparsi dalla faccia della terra senza che del loro passaggio sia rimasta traccia nei libri di storia. Quelli che vivevano, poco, in case buie e malsane, passavano la vita nei campi e nelle botteghe per mangiare, poco e male, con l’unico miraggio della sopravvivenza, da guadagnare giorno per giorno. Quelli che, se al signore del feudo gli girava così, dovevano accettare le “angherie”: che non era un generico sopruso, quel che intendiamo oggi, ma l’obbligo di lavorare gratis perché al signore gli girava così. Quelli cui non era permesso di imparare a leggere e scrivere e, se poco poco ci riuscivano e provavano a pensare fuori dagli schemi, finivano alla gogna o dentro una delle tante macchine da tortura esposte oggi nei musei di mezza Europa. Contadini e mestieranti che, dopo aver rifornito il castello di ogni risorsa, venivano cacciati dal castello medesimo quando c’era da difenderlo da assalti nemici, per cui la loro presenza diventava solo un impedimento e una zavorra, oltreché altre bocche da sfamare. Ed erano i primi a morire, inermi. Quelli che, bambini, venivano mandati dai magister in bottega ad imparare un mestiere, pagandosi per anni vitto e alloggio, finché non producevano da loro il primo “capolavoro”, cioè il primo oggetto fatto con le loro mani che li immetteva nel mondo del lavoro, ma senza alcuna garanzia di riuscita, nessuna cassa integrazione né ammortizzatori sociali. Quelli che morivano di peste, tifo, dissenteria, di qualunque banalissima influenza, ma anche di cancro come oggi, quelli che un mal di denti dovevano tenerselo, senza rimedi se non inefficaci decotti di erbe. Quelli che nelle osterie bevevano vino pessimo, che dormivano in tanti nello stesso letto e pagavano tasse su ogni cosa. Quelli che al tramonto si chiudevano le porte della città e il loro mondo finiva lì. La storia non sarà una linea verticale verso l’alto, avrà alti e bassi, procederà a spirale o non so come. Però studiarla dagli occhi della gente comune ci urla che quel presente che viviamo non fa poi così schifo, che lamentarci sempre di tutto e di tutti denota solo una grande ignoranza e che “si stava meglio quando si stava peggio” è solo un miope modo di dire.
Nato nel 1971 ad Arzachena ed ivi smisuratamente ingrassato negli anni seguenti, figlio di camionista e casalinga. Titoli appesi alle pareti: laurea in Lettere moderne all'Università di Sassari, iscrizione all'albo dei giornalisti professionisti, guida nazionale di mountain bike, presidente della Asd Smeraldabike, direttore della testata Sardegnablogger. È stato redattore di tre diversi quotidiani sardi: dal primo è stato licenziato, gli altri due sono falliti. Nel novembre del 2014 è uscito il suo primo romanzo, "Cosa conta".
Renatino e i misteri di Roma (di Giampaolo Cassitta)
Cara Cora (di Francesco Giorgioni)
The show must go on (di Cosimo Filigheddu)
Vincerà Mengoni. Però… (di Giampaolo Cassitta)
Ero Giorgia, e ricanto. (di Giampaolo Cassitta)
Piacere, Madame. (di Giampaolo Cassitta)
Se son fiori spariranno (di Giampaolo Cassitta)
Ma Sanremo è Sanremo? (di Giampaolo Cassitta)
Pacifisti e pacifinti (di Simone Floris)
Lo specchietto (di Salvatore Basile)
Da San Gavino a San Cristoforo, quando colonizzammo il Villaggio Verde. Ovvero il trasloco (di Sergio Carta)
Se riesco a buscare 5000 Lire ci vediamo allo Zoom, ovvero le pomeridiane in discoteca degli anni’80. (di Sergio Carta)
Papa Fazio (di Cosimo Filigheddu)
sardegnablogger ©2014 created by XabyArt - graphic & web design