Già, «la storia siamo noi», come cantava Francesco De Gregori, la storia siamo anche noi, «questo rumore che rompe il silenzio». Perché oggi, a più di settant’anni dal giorno della Liberazione del 1945, siamo ancora qui, a subire questo rigurgito incontrollato di fascismi, tra nostalgici e analfabeti di ritorno, che però giudicano la Storia senza mai averla studiata. E forse non è un caso che degli omosessuali – o meglio dei pederasti, froci, arrusi, ricchioni, femminielli o malati – sotto il fu regime, se ne è parlato sempre molto poco, tra l’imbarazzo e il disinteresse. Raccontare peròin quest’occasione, qual è stato l’atteggiamento del fascismo nei confronti dei diversi, il modo attraverso il quale li ha espulsi dal corpo sociale e le contraddizioni che emergono, chiarisce anche antropologicamente la nostra più profonda natura, e l’attuale rapporto che abbiamo con il sesso, con la sacralità del Potere e con la religione cattolica. Soprattutto perché oggi va troppo di moda quel «bè, in fondo Mussolini di cose buone ne ha fatte!» non solo pronunciato nel blob infinito di fake che sono i social, ma anche da certi leader politici che pur di tirar su un voto giocano sulle debolezze di un popolo ormai senza più passato, giacché stando ai sondaggi la percentuale di chi sa cosa si festeggia il giorno della Liberazione purtroppo è sempre più bassa. Così ho deciso di riportarvi a quando in Italia furono promulgate le infami leggi razziali (1938), perché solo di infamità si può parlare.
Alla fine degli anni Trenta, il regime, copiando le politiche persecutorie della Germania hitleriana, decise di attivare anche un processo di stigmatizzazione ed esclusione socio-culturale degli “invertiti” per «delitti contro la razza». A differenza però del nazismo, che ne deportò migliaia nei campi di concentramento, durante quegli anni furono confinate meno di cento persone. E non certo perché in Italia, come si preferiva credere, non ci fossero omosessuali. Le ragioni di questa diffidenza giuridica e persecutoria si comprendono con l’analisi di alcuni elementi storici. In ambito legislativo, fin dalle origini dell’unità d’Italia, si è sempre preferito credere che fosse «più utile l’ignoranza del vizio», come si legge nel Progetto per il codice penale per il Regno d’Italia (Camera dei Deputati, vol. 1, Relazione ministeriale, Stamperia Reale, Roma 1887), che non la sua pubblicizzazione. Così quando nel V anno dell’Era fascista (1927), iniziarono i lavori preparatori per la promulgazione del nuovo Codice penale, anche il Guardasigilli Alfredo Rocco dichiarò che «nuove configurazioni di reato non possono trovare giustificazione, se il legislatore non si trovi in cospetto di forme di immoralità che si presentino nella convivenza sociale in forma allarmante» (Paolo Pedote, Storia dell’omofobia, Odoya 2011). Tutto ciò è di una logica disarmante: se io perseguito degli individui, implicitamente dichiaro che esistono. Inoltre, il fascismo sapeva bene come plasmare l’italiano medio: se la virilità aveva un ruolo fondamentale, Mussolini era la sola chiave iconografica. Il Duce era imposto in tutte le salse, e la sua iperattività eterosessuale era uno degli aspetti dominanti della sua vita pubblica. Sicché il balilla non poteva che essere addestrato a un’ossessiva e incessante competizione machista alimentata da un lato dalla retorica delle gare sportive e dall’altro dall’esibizione di un sano appetito nei confronti delle donne, considerate però prive di funzioni sociali ma esclusivamente votate ad assistere il maschio: madri, amanti o puttane. Tutto ciò però faceva dell’omosessuale, scrive Lorenzo Benadusi (Il nemico dell’uomo nuovo. L’omosessualità nell’esperimento totalitario fascista, Feltrinelli 2005), anche un nemico assai più insidioso di tutti gli altri: non era ebreo e non era comunista, ma piuttosto era un nemico capace di corrompere scavando come l’acqua produce il solco nella roccia, goccia dopo goccia. Infine, il matrimonio d’interessi che il fascismo aveva fatto con la Chiesa Cattolica, un’agenzia di potere per il controllo della moralità straordinaria, era l’arma di repressione più idonea. Il religioso, nella veste del parroco, spiega Giovanni Dall’Orto (Tutta un’altra storia, Il saggiatore 2017), sarebbe stato molto più bravo, efficace e meno costoso di un qualsiasi commissario di polizia. Sicché gli strumenti che avevano l’obiettivo di disincentivare i pervertiti a vivere «pubblicamente» la loro vita, erano diversi e abbastanza noti: il pestaggio, l’utilizzo delle classiche bottiglie d’olio di ricino, il licenziamento in tronco, l’ammonizione. Era stata inoltre istituita la tassa sul celibato (1927), con l’obiettivo di favorire matrimoni e natalità. L’alleanza tra Germania e Italia, però iniziava a dare i suoi frutti più velenosi e se un tempo era Hitler che vedeva in Mussolini un esempio, adesso era esattamente l’opposto. Ciò avvenne in modo goffo, come abbiamo detto, su un terreno culturale poco adatto. A noi basti sottolineare che il risultato modesto di questa politica «razzista» fu di meno di cento condanne al confino inflitte a omosessuali fino al 1939, e che di questi provvedimenti la metà provenivano da Catania, dove operava il questore Alfonso Molina, che aveva molto a cuore «la piaga della pederastia». Scriveva, infatti, con passione che «in questo capoluogo tende ad aggravarsi e generalizzarsi perché giovani finora insospettati ora risultano presi da tale forma di degenerazione sia passiva che attiva, che molto spesso provoca anche mali venerei». Attivò persino un meccanismo medico in piena sintonia con la nuova tendenza scientifica europea in cui si analizzava in modo minuzioso l’ano dei pederasti colti in fragranza di reato (ricordiamo che nei lager, l’omosessuale erano tra le cavie preferite dei medici, se così si possono chiamare, nazisti). Le destinazioni dei confinati gay furono diverse, ma i provvedimenti di confino effettuati nella questura siciliana e non solo, secondo gli Archivi di Stato, trovarono la loro soluzione principale a San Domino, dell’arcipelago delle isole Tremiti. Già San Nicola era stata utilizzata per confinare gli oppositori del fascismo. Si trattava soprattutto di anarchici, socialisti e comunisti. E nella piccola isola a fianco fu istituita una colonia penale per soli «pederasti» che in pochi anni raccolse circa settanta unità, provenienti da tutte le parti d’Italia, tra cui «femminielli» napoletani ma soprattutto tanti «arrusi» siciliani. Si trattava di gente di ogni ceto ed estrazione sociale: professori, impiegati, operai, scapoli. Ma qui accadde il paradosso, poiché quella che sarebbe dovuta essere una punizione per la propria diversità, divenne piuttosto uno spazio di libertà. Certo, il confino era un provvedimento che privava della libertà, che allontanava le persone dalle proprie famiglie. Era la violenza del fascismo. San Domino però divenne il posto dove per la prima volta nella propria vita si poteva essere se stessi, in tutta tranquillità. Nonostante, infatti, le regole del provvedimento imponessero un controllo costante dei detenuti, esistevano spazi in cui ognuno era solo se stesso. A San Domino nacquero storie d’amore e amicizie. Alcuni di loro esercitavano il proprio lavoro e si organizzavano feste e piccoli spettacoli teatrali. Alcune testimonianze raccontando che fascisti, carabinieri e pescatori non disdegnavano con gli ospiti una sveltina notturna sotto lo sguardo pallido di una luna complice. Insomma, a San Domino il disprezzo e la violenza solitamente subite, non erano così accentuate, come in continente. Così, quando nel giugno del 1940, l’isola venne destinata ad altro uso militare, in vista della guerra imminente, e i confinati della colonia rispediti a casa, alcuni di loro piangevano perché dovevano lasciare un luogo dove per la prima volta non erano costretti a scappare e nascondersi. Se dunque il fascismo aveva come obiettivo quello di estirpare l’erbaccia gay dal suo eden di maschioni di razza ariana fabbricati in serie e pronti a immolarsi per l’Impero, gli andò proprio male. Così oggi i nostalgici che marciano ricordando le cose buone che Lui fece, o che postano stupidate prive di senso su Facebook o Twitter, per coerenza dovrebbero anche rievocare la prima comunità gay al mondo che per ironia del destino, inventò proprio Mussolini senza saperlo. Altrimenti studiassero un po’ di storia, giacché a NOI piace invitare le nuove generazioni, ignare di ciò che significhi profondamente questo 25 aprile, a riflettere su quanto sia difficile essere se stessi in quei meccanismi di potere dove si schiacciano le libertà e i diritti individuali degli esseri umani. Buona Liberazione a TUTTI!
In questa categoria sono riuniti una serie di autori che, pur non facendo parte della redazione di Sardegna blogger collaborano, inviandoci i loro pezzi, che trovate sia sotto questa voce che sotto le altre categorie. I contributi sono molti e tutti selezionati dalla redazione e gli autori sono tutti molto, ma molto bravi.
Renatino e i misteri di Roma (di Giampaolo Cassitta)
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