Giampaolo Pansa lo avevo perso di vista dopo la sua deriva “a destra” e l’innamoramento di alcune idee che, ritengo, non potevano camminare all’interno della mia strada. Di Pansa ho amato il suo periodo a Repubblica, i suoi reportage in qualità di inviato ai congressi democristiani quando, con sottile ironia, riusciva a raccontare tutto il potere della balena bianca. Ho amato moltissimo i suoi primi libri, soprattutto quello ambientato a Piscinas (ti porterò fuori dalla notte) e poi basta. Era diventato insopportabile, vicino a Belpietro, non proprio il simbolo di giornalismo corretto (sempre che esista il giornalismo corretto) e non avevo più letto un suo articolo da quando scriveva per “la Verità”. Questa settimana sull’Espresso è stata pubblicata una bellissima intervista firmata da Goffredo Pistelli in cui Pansa ripercorre, con la sua antica cattiveria, molti anni di quella che tutti ricordiamo come “prima Repubblica”. Mi ha colpito un riferimento ad una polemica tirata in ballo da Pansa quando era vicedirettore di Repubblica e che avevo quasi dimenticato: l’accusa ad alcuni giornalisti che si mettevano al servizio di una causa, per interesse o per militanza. Pansa li apostrofò come “giornalisti dimezzati”. In quella polemica molto feroce, Miriam Mafai, sempre dalle pagine di Repubblica, ammise che in molti casi questo era accaduto. Mi interessa ritornare su questo punto non tanto per ricordare un pezzo di storia ormai trascorsa ma per riflettere sull’importanza che il giornalismo (e quindi il giornalista) aveva in quegli anni: sul suo peso specifico anche politico – soprattutto politico, nel senso più vero e alto del termine – e sulla possibilità di smuovere le coscienze. Sempre nella stessa intervista Pansa ricorda di essere stato ospite all’Hotel Raphael, quello dove alloggiava Bettino Craxi e la camera gli veniva pagata dal giornale, “perché allora i giornali erano ricchi e potevano pagare l’albergo ad un vicedirettore.” Il giornalismo era al centro del potere, in molti casi rappresentava il potere. Il giornale costruiva le sue campagne e le incentrava sui politici e, direte voi, anche oggi funziona in questo modo. Non è così perché oggi, a differenza di ieri, tutto si è modificato e molti giornalisti che una volta si potevano definire “dimezzati” sono completamente alla mercé dei potentati di turno, in quanto il mestiere di “giornalista” è stato completamente stravolto e distrutto da un fattore normale ma terribile: le vendite. I giornali non si vendono, i giornalisti sono sottopagati e la merce non è chiaramente di qualità. Qualcuno ipotizza che il problema sia legato ad internet ma credo che la situazione sia più complessa. I lettori di Repubblica, per esempio, facevano parte dell’establishment della “sinistra” di gente, per estrazione storica e culturale, abituata ad acquistare e leggere il giornale per informarsi ma, soprattutto, per analizzare i fatti. Sono scomparsi, nel corso degli anni, i giornalisti che andavano a verificare le notizie, andavano di persona a capire cosa stesse accadendo in quel paese, in quella città, in quel quartiere. Sempre sull’Espresso che ospita l’intervista a Giampaolo Pansa vi è un bellissimo reportage firmato da Fabio Polese e dal titolo eloquente: “Manila di morte” e subito mi sono chiesto: perché sui quotidiani non c’è più il gusto di raccontare ed invece c’è questo modo di riportare le notizie sul didascalico spiegando nomi e situazioni? Sia Repubblica che il Corriere della Sera da qualche tempo mettono vicino all’articolo dei piccoli vademecum: “di cosa stiamo parlando” e il Corriere spiega molte volte il significato di certe parole: decreto, complotto, sussidiarietà, bollinatura. Ecco, se questo è il giornalismo che ci troviamo davanti dovremmo riflettere seriamente su moltissime cose: siamo un paese che non conosce più le parole, non sa reggere il filo della memoria, non riesce a comprendere anche le cose più semplici. I quotidiani diventano così come una pagina di facebook dove, in meno di 1500 caratteri, si deve tentare di spiegare qualcosa di terribilmente complesso. Siamo finiti nel mondo dei “pesci rossi” dove i ricordi sono temporanei e frammentari e dove non si riesce mai ad analizzare le fenomenologie perché non si è in grado di capire da dove tutto era cominciato. Così, quando davanti ad un decreto presentato dal Governo, si scopre che esiste una tabella esplicativa e che quella tabella non racconta le stesse cose che raccontava la politica e la propaganda politica, si grida al complotto dei poteri forti senza rendersi conto che oggi e da qualche mese i poteri forti (e, dunque, il potere) sono rappresentati da chi ci governa, da chi deve dare risposte chiare a quello che ha promesso in campagna elettorale. Si dovrebbe cominciare a smettere di essere giornalisti “dimezzati” e si dovrebbe cominciare a raccontare una realtà che è ben diversa da quella che ci veniva raccontata. Se si leggesse la storia, se si cominciasse a studiare, se si riflettesse su quanto sta accadendo, probabilmente non ci sarebbe bisogno di spiegare tutti i giorni “di cosa stiamo parlando” e di cosa diavolo sia la “bollinatura” che non è una parolaccia o un espediente inventato da quando governano i cinque stelle e la lega (ho letto anche questo, purtroppo) ma è più semplicemente una verifica da parte di chi deve mantenere a galla questo paese, oggi come allora, dalle derive propagandistiche di certi signori della politica. Non sono poteri forti e non sono servi del potere quelli che controllano gli atti del Governo: sono più semplicemente servi dello Stato e che non possono essere “cacciati” solo perché in contrasto con chi vuole avere “mani libere”. I giornalisti comincino a raccontare questo, comincino ad intervistare, analizzare e verificare il lavoro del governo. Il mestiere di giornalista è di per sé curioso: non possono esistere giornalisti dimezzati, non possono esistere giornalisti che concludono tutto con un semplice compitino. Dovremmo cominciare a ribellarci dalla schiavitù della sintesi, dall’utilizzare poche parole per raccontare tutto. Con un twitter non si spiega perché Napoleone perse a Waterloo e neppure perché stiamo ancora cercando la verità sul sequestro e l’uccisione dell’Onorevole Aldo Moro e della sua scorta. C’è bisogno di praterie sociali e politiche più ampie. Lasciate perdere chi ha la soluzione dentro un clic. La soluzione, come la verità, quando si tratta di uomini non è mai semplice, ma non dobbiamo disperare: c’è ancora voglia di comprendere e di capire la complessità di ciò che ci accade intorno. E vorrei tanto che i giornalisti ritornassero a raccontarla questa complessità utilizzando, come in questo caso, almeno 6744 caratteri, spazi inclusi.
Nato a Oristano. padre gallurese, madre loguderse, ha vissuto ad Alghero, sposato a Castelsardo e vive a Cagliari. Praticamente un sardo DOC. Scrive romanzi, canta, legge, pittura, pasticcia e ascolta. Per colpa del suo mestiere scommette sugli ultimi (detenuti, soprattutto) e qualche volta ci azzecca. Continua a costruire grandi progetti che non si concretizzano perché quando arriva davanti al mare si ferma. Per osservarlo ed amarlo.
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