“La Spiaggia è sempre chiusa?” “Si. Non si può calpestare e non si può avvicinare più di tanto con le barche. È solo da guardare”. “Peccato”. “Si, peccato. Ma la stavamo ammazzando”. “Chi la sorveglia?” “Nessuno. Il guardiano dell’isola è andato via. Non so se tornerà. I nuovi proprietari hanno intenzioni che non si capiscono. L’isola di fatto è abbandonata. Dicono di volerla preservare. In realtà hanno fatto un gesto di forza solo sulla carta, un po’ come quelli che si comprano un ettaro di terreno sulla Luna: l’hanno comprata e ora non ci mette piede nessuno. E chi ci mette piede non sa se sta facendo bene o male. Una situazione molto all’italiana”. “Quindi l’accesso è vietato ma anche libero?” “In sostanza è così”. “Bene. Scendiamo?” “Ovviamente si. Comunque non era un tesoro”. “Cosa?” “Quello della filastrocca, non era un tesoro”. “Ah no? E che cos’era?” “Un banco di corallo, dicono. Un banco immenso”. Ridiedi gas, piano, chiedendo a Monica di mettersi un’altra volta al timone. Ormai sembrava naturale. Presi l’ancora e tornai alla guida. “Fammi una cortesia: quando te lo dico, lanciala in questa direzione. Ti metti qui, vicino a me, e lanci da questa parte. Fai questo movimento. Decisa ma senza farti male. Ok?” “Ok”. Quando fummo a dieci metri dagli scogli gettò l’ancora, che per fortuna prese subito bene. Lentamente accostai la prua alla riva, alzando il motore. Poi saltai a terra, legai la cima di prua a uno scoglio e aiutai Monica a scendere. Non c’era nessuno. Le uniche barche erano dentro il Porto della Madonna ma da quel punto non si vedevano. Ebbi pensieri turpi e favolosi, che tenni per me. “Soli su un’isola deserta?”-mi chiese Monica. “Paura?” “Di chi? Di te?” Fine della turpitudine.
Facemmo il sentiero in silenzio, o quasi. Le raccontai qualcosa sulle piante, su una bellissima e rara che cresce proprio nel punto in cui eravamo scesi, e in pochissimi altri delle Bocche. Poi di nuovo silenzio. L’estate era alla fine. Si stava spegnendo, come luce, come caldo, come caos in giro per terra e per mare. Ma era ancora una meraviglia. Il Mediterraneo è un’isola liquida e le sue isole di terra e roccia sono come immense città. Il mare di quest’isola è il mondo, il vecchio mondo. Asia, Africa, Europa. Tre oceani su cui trovi di tutto, su cui è successo tutto. Con le loro onde e le loro correnti hanno portato su quella grande isola azzurra tutta la civiltà di cui sono state capaci. E il Mediterraneo le ha ricambiate, permettendo loro di non perdersi, di restare unite a respirare quando ce n’era bisogno, di continuare a guardarsi negli occhi anche quando era difficile, anche nei momenti d’odio. Anche oggi, che la vita e la morte continuano a prendersi a coltellate tra l’Africa e la Sicilia, tra l’Africa e la Spagna. Questa madre, quest’isola immensa fatta di acqua e relitti di ogni tempo, si racconta volentieri in ogni stagione. Alla fine dell’estate la sua sembra una voce stanca su un viso sorridente. La vita tutto intorno brucia, mentre il Mediterraneo inizia a prepararsi per la notte, per i sogni, per le tempeste di grandine sul mare. Per l’inverno, che ancora è lontano ma arriverà. L’odore di certe piante e i primi soffi freschi dopo mesi di calura lo ricordano a tutti: inizia un altro giro. Si vive.
Non è che gliele dissi queste cose. Non ebbi il coraggio. Erano pensieri turpi a modo loro, nella loro nudità disordinata. Mica si può dire tutto. Anche quando ci sembra bello e qualcosa brucia dentro e spinge perché vuole uscire. Altrimenti, fosse solo per questo, avrei dovuto raccontarle pure di come le guardavo il culo quando mi camminava davanti, di come cercavo di capire qualcosa delle sue tette, di come facessi il tifo per il vento, che mulinava tra le sue gambe nell’ombra di quella gonna leggera, mentre passavamo sui sassi del sentiero. Invece stavo per provarci, a farle un complimento di quelli che non c’entrano nulla, di quelli che escono dalle budella e che la va o la spacca. Lei si voltò appena, mentre lasciavo che stesse davanti sul camminamento strettissimo, tra due sponde di spine e cespugli invecchiati dal sole: “Sei sposato?” Volli capire quel che volli capire. Le dissi il sì più interessato che potessi concepire su due piedi: speravo si accorgesse che avevo paura di annegare, che non credevo più tanto nel mio matrimonio, in nessun matrimonio. Che volevo riprendere a giocare, come fanno tutti gli animali, anche da vecchi. E invece arrivò prima lei. Ma non Monica: la spiaggia. Scavalcammo l’ultima gobba di roccia proprio mentre una raffica più svelta delle altre, senza ostacoli, sollevò leggermente la sua gonna facendo volare a me il cappello. Non lo persi solo per il sottogola, che me lo fece poggiare sulla schiena appena l’aria fu ferma. Ricorderò quell’immagine per sempre: il vento che arriva, la gonna che si muove, una striscia di sabbia rosa sotto la prima acqua della battigia, inquadrata dai miei occhi tra le sue caviglie. Intorno non c’era nessun altro essere umano. Odiai la mia timidezza come non facevo da molto tempo. “Porca miseria, è bellissima”. Neanche risposi. La spiaggia si presentò come una cosa primitiva. Inconcepibile. In una zona ad alta densità turistica, un angolo così bello e così vuoto rimandava per forza a quando l’uomo era un accidente tra tanti altri animali. Oppure una specie dannosa ma troppo rozza per divorare ogni pezzo di bellezza coi suoi programmi e la sua visione del mondo. Monica si girò una paio di volte verso me e verso la spiaggia che le stava di fronte, e non riusciva a dire altro. Io avevo già pronto sul piatto il disco con la formula magica: briozoi, foraminiferi, le onde e le correnti, i secoli, la pazienza delle cose, una spiaggia che dovrebbe essere bianca e diventa rosa, l’uomo che ne fa preda per pura ignoranza, eccetera. Ma non trovai il coraggio. Stetti zitto, in attesa che parlasse ancora lei. Invece Monica si sedette su uno scoglio: “Qui si può, vero?” Si, si può. Mi misi accanto a lei. Più vicino di quanto farebbe un vero timido. Poche onde arrivavano fino a terra. Piccole, smorzate. Si sentiva il passare dell’acqua sul margine del mondo, il vero senso della parola “isola”: una cosa che non è mai stata uguale a se stessa, esista pure da milioni di anni. Ogni spostamento dell’acqua che la definisce, ogni movimento del mare, disegna un orlo diverso a ogni istante, a ogni onda che arriva e riparte. La roccia che si tuffa e riemerge ospita un confine mobile; ora è isola, ora è fondale, ora è solo roccia che risponde alla spinta dell’acqua. L’Arcipelago visto dal livello zero è identico e altro rispetto a quello che si vede dall’alto, anche solo da cento metri di quota. Da su, anche la peggiore tempesta lascia tutto com’è. Le cose, intendo. Una tempesta interviene sui suoni e sui colori, al massimo. Sposta un po’ di bianco giù, un po’ di grigio su, fischia, urla, sbatte. Le cose grandi però sembra che la sfottano, lasciandola sbraitare, tanto loro resteranno dove i millenni le hanno messe, fino al prossimo uragano. L’inferno che si spalanca sotto una nave, da su lo puoi solo pensare. Il mare non sembra mai un’unica grande bocca che continuamente mastica ogni cosa. No, da su sembra un qualsiasi campo di grano senza misure, che qua e là finisce, contro una collina, contro un gruppo di monti lontani. Ma che in fondo è infinito.
Nacqui dopopranzo, un martedì. Dovevo chiamarmi Sonia (non c’erano ecografi) o Mirko. Mi chiamo Luca. Dubito che, fossi femmina, mi chiamerei Sonia. A otto anni è successo qualcosa. Quando racconto dico sempre: “quando avevo otto anni”, come se prima fossi in letargo. Sono cresciuto in riva a mare, campagna e zona urbana. Sono un rivista. Ho studiato un po’ Filosofia, un po’ Paesaggio, un po’ Nuvole. Ho letto qualche libro, scritto e fatto qualche cazzata. Ora sto su Sardegnablogger. Appunto.
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