Sull’Unione Sarda vedo oggi due notizie che mi fanno pensare a come il problema ambientale sia attraversato in Sardegna da una singolare dicotomia. Da una parte l’assessore al Turismo Gianni Chessa che afferma che nella nostra isola “ci vogliono i campi da golf, così con questo turismo green rispondiamo anche agli ambientalisti”. Ora, che i campi da golf in quanto a colore diano sul verde è senz’altro esatto, ma se “verde” viene usato nell’accezione di “ecologicamente compatibile”, gli ambientalisti su queste strutture pensano esattamente il contrario. Quindi se l’assessore vuole dare un contentino a questa corrente di pensiero – ritenuta estremista da molta politica che trasversalmente la giudica una fastidiosa intromissione nei discorsi dei grandi – deve pensare ad altre soluzioni. L’altra riguarda Daniela Ducato, portavoce di Edizero, una filiera di aziende sarde che realizzano centoventi prodotti biodegradabili per settori che vanno dall’edilizia alla moda. La notizia è che Daniela Ducato a Roma ha parlato di questa attività con quel magnifico simbolo dell’ambientalismo che è Greta Thunberg.
C’è ancora strada da fare. Qualche giorno fa ho coordinato a Sassari un dibattito sul libro della Edes “La Nuova Sardegna ai tempi di Rovelli” e mi è sembrato di notare che non sia del tutto condivisa la consapevolezza di come quell’esperienza industriale pesi tuttora negativamente sulla nostra isola e in particolare nel territorio del Sassarese.
Ci penso ora perché tra l’altro in quella occasione ho detto che la Sir rallentò lo sviluppo della città come un secolo prima lo aveva fatto l’epidemia di colera. Ho aggiunto che la Sir per fortuna questo rallentamento, a differenza del colera, lo provocò in maniera incruenta. Ma quando l’ho detto non avevo ancora letto una relazione dell’Isde che nei giorni successivi ho avuto dalla dottoressa Paola Correddu, dirigente sarda dell’International Society of Doctor for the Environment, l’associazione dei medici per l’ambiente il cui leader sardo è stato Vincenzo Migaleddu. In questa relazione (basata sui dati dello studio Sentieri coordinato dal ministero della Salute) si parla delle numerose “morti in eccesso” e si afferma: “I dati epidemiologici evidenziano inequivocabilmente come vi sia una compromissione della salute pubblica nell’area di Porto Torres legata a un ambiente fortemente compromesso dal punto di vista ambientale con un incremento dei tassi di mortalità”.
Molto significativa, tra le altre, una considerazione storica della dottoressa Correddu, a margine della sua relazione, che riporto integralmente: “Il piano di rinascita, che in un primo momento prevedeva un sostegno finanziario nei confronti delle attività tipiche della Regione Sardegna – agricoltura, pesca, allevamento, artigianato – successivamente, per finalità estranee agli interessi dei Sardi, venne rimodulato a favore del sostegno del settore industriale e in particolare il settore petrolchimico.
“A quei tempi la sensibilità ambientale era pressoché inesistente, non si aveva alcuna idea di quali potessero essere le conseguenze della lavorazione nel settore petrolchimico e si vedeva in questo tipo di investimento un grande progresso, un modo per superare secoli di arretratezza e migliorare la qualità di vita delle nuovi generazioni. A distanza di oltre 50 anni, se dovessimo fare un bilancio di questa scelta politica, potremmo dire che essa è stata nefasta per il territorio di Porto Torres che, non solo non si è arricchito (il Pil di quest’area industriale non è mai stato pari a quello di altre aree industriali del Nord), ma sta pagando a caro prezzo gli esiti di questa industrializzazione che ha avvelenato il suolo, le falde acquifere, l’aria, con gravi ripercussioni sulla salute della popolazione.Non solo. L’ingresso nell’economia e nel territorio Sardo di questo nuovo tipo di attività ha comportato il progressivo abbandono di quelle attività che ci avevano dato da vivere quali agricoltura e pastorizia, sia per la progressiva diminuzione del territorio a loro disposizione sia per il sempre minor numero di persone coinvolte. E a questo è seguito un altro effetto più subdolo ma non meno importante rappresentato da una progressiva trasformazione del tessuto sociale e culturale, non sempre migliorativa, di cui forse non ci siamo neanche resi conto”.
E’ in sostanza quanto avevo affermato nella mia introduzione al dibattito di cui parlavo prima. La Sir di Nino Rovelli è stato un fenomeno che ancora pesa sulla Sardegna. E su Sassari, in particolare, è un macigno che la nostra città, nel suo tessuto economico e sociale, nella sua classe dirigente, ancora non è riuscito a rimuovere dal cervello e dalla coscienza, in questo declino di economia e di cultura.
Io ho la convinzione che due rovesci epocali frenarono la crescita di Sassari nell’Ottocento e nel Novecento. Il primo fu il colera del 1855, che in poche settimane fece strame di oltre cinquemila sassaresi su una popolazione di ventimila, escludendo per sempre Sassari dalla secolare competizione con Cagliari per il predominio economico e culturale nell’isola; ma anche facendole perdere, probabilmente senza più recuperarlo, il ruolo di centro propulsore almeno del suo territorio.
L’altro episodio è l’arrivo della Sir negli anni Sessanta del Novecento, che si calò come un gigante prepotente nell’economia del Sassarese, calpestando una cultura industriale debole ma a misura di territorio, un’economia e un tessuto sociale che avevano faticosamente prodotto per oltre un secolo, riprendendosi dopo quel colera del 1855, classe dirigente attiva, classe politica progressista, alti livelli culturali e un reddito dignitosamente diffuso in rapporto all’epoca di cui parliamo.
La differenza tra il colera e la Sir di Rovelli è che l’epidemia arrivò senza che nessuno la volesse. La Sir no, molti qui la volevano.
Il parallelismo consiste invece nel fatto che entrambe le volte Sassari era predisposta a questi arrivi. Nell’Ottocento per le sue condizioni igieniche di città ancora affollata e ristretta tra mura invalicate per mantenere il valore degli immobili posseduti dalla nobiltà e dal clero; negli anni Sessanta del Novecento per la crisi di identità che la borghesia imprenditoriale e delle professioni stava vivendo, rendendosi così permeabile a questa gigantesca e illusoria bolla, chiaramente destinata a scoppiare: un’azienda privata che con soldi pubblici pagava operai e costruiva un’industria da molti ritenuta obsoleta e fuori mercato già da allora.
Si rimpiangono ora, e comprensibilmente, quelle migliaia di posti di lavoro. Io stesso ho cominciato a lavorare in giornale controllato dalla Sir, l’Unione Sarda, e ho proseguito in un altro, La Nuova Sardegna, posseduto anche formalmente dalla stessa società. La mia fortuna rispetto ad altre decine di migliaia di persone è che, quando arrivò il disastro Sir, La Nuova Sardegna venne acquistata dall’editore Caracciolo. E il gruppo editoriale non soltanto conservò e moltiplicò i posti di lavoro, ma fece della Nuova uno dei più importanti giornali regionali italiani.
Penso che ci si debba chiedere quanto costasse, di denaro pubblico, ciascuno di quei posti di lavoro elargiti dalla Sir e quanto a lungo questa manovra potesse essere sostenibile. Una città debole, Sassari, che sostanzialmente ha voluto la cattedrale di Porto Torres. “Cattedrale nel deserto”, si diceva allora. Desertificazione di altre economie a dimensione del territorio, della città e della storia degli uomini che ci vivevano. E desertificazione nel senso letterale, per i gravi e in certi casi sembra irreversibili danni provocati all’ambiente da un processo industriale respinto per questo motivo in altre parti del mondo civile.
E non solo inquinamento della terra e dell’aria ma anche della moralità. Nelle inchieste penali seguite al crollo della Sir e al disastro in cui gettò il nostro territorio, emerse la realtà delle tangenti, un fiume di soldi in cui galleggiavano visibili quelli tracciati, gli assegni, ma sufficienti per descriverci il quadro di una corruzione disastrosa anche negli effetti pedagogici. Un malcostume che – nella narrazione diffusa in Sardegna – non era soltanto quello delle grandi “dazioni” alla politica, ma anche quella delle piccole erogazioni, delle bustarelle, quelle che pervadono e intridono a ogni livello l’etica di una comunità.
Quando il sogno della chimica si è dissolto in un incubo, Sassari non è riuscita a costruirsi altre realtà. E neppure altri sogni, devo dire. Se non l’edilizia delle case invendute e l’economia delle rimesse pubbliche. Restando ogni anno di più vittima passiva di chi al sud dell’isola, provocando gravi squilibri di risorse, ha fatto legna dall’albero secco. E questo, ho il sospetto, con una certa complicità più o meno oggettiva di molta della classe politica sassarese.
Per quanto riguarda il tema della stampa, di cui si parla nel libro curato da Sandro Ruju, oggetto del dibattito di cui dicevo, già in quegli anni Sessanta, quando si impossessò della Nuova e dell’Unione Sarda, la Sir tendeva a creare un’informazione unica a livello regionale. Se questo fenomeno si ripetesse adesso – e ci sono notizie ricorrenti e preoccupanti in merito – in questo quadro di ulteriore declino della città, non ci sarebbe neppure quel pezzo di Sassari cosciente e coraggioso che si oppose e di cui si racconta in “La Nuova Sardegna ai tempi di Rovelli”.
Io penso che il modo migliore per iniziare ogni risalita sia quello di fare i conti con il passato. La debolezza sassarese su cui Rovelli ha prevalso ha origini anche in questo: nel mancato ricambio di classe dirigente dopo la caduta del Fascismo, quando impresari, intellettuali, giornalisti e persino politici continuarono nel ruolo come se nulla fosse accaduto e passò la vulgata del “fascismo all’acqua di rose e dell’antifascismo all’acqua di rose”. Ed ecco perché una frase che molto mi ha fatto riflettere in quel libro è quella citata dalla storica Giuseppina Fois nel suo bel saggio introduttivo. La frase di uno dei più importanti intellettuali sassaresi, Giuseppe Melis Bassu, quando commentò il lamento di Sassari per la fine, con l’arrivo di Rovelli, della tradizione democratica della Nuova Sardegna, quella pulsione pluralista e anticonformista recuperata con la rifondazione del 1947. Ma Melis Bassu scrisse: “Diciamolo ancora una volta, anche se è amaro ripeterlo: nessuna bandiera è stata ammainata, perché nessuna bandiera – da tempo ormai – sventolava su quel pennone”.
Nato nel 1951, ottobre (bilancia, ma come tutti quelli della bilancia non crede nell'oroscopo). Giornalista dal 1973. Scrive anche altra roba. Ma gratis, quindi non vale.
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