La sera andavamo da Capra. Te lo ricordi? Non era per rubare tempo al lavoro, ma per darne un pochino alla vita. Se stai in redazione quattordici ore nessuno pretende che le trascorra tutte con il culo di bon’assentu sulla sedia. Ogni tanto un caffè serve a liberare la testa. Soprattutto se era uno dei caffè più buoni di Sassari.
E noi andavamo da Capra, più che per il caffè, per sentire i discorsi degli avventori di Capra. Ma non noi, che eravamo degli aggiunti, gente che, quando entrava, i clienti veri cambiavano discorso, e questo mi dava un disperato senso di esclusione, mentre tu te ne fottevi. E prendevi appunti. Avevi un calepino dentro la testa e catturavi le perle migliori per inchiodarle sulla pagina con la matita della tua straordinaria memoria. Avevi la spietatezza di un entomologo. Volevi scrivere un libro.
La più nota era “Con tutte le rocce che crescono in Sardegna noi le importiamo da Continente”, saggia considerazione di politica economica che non mancava di suscitare consenso.
Quando morì Italo Calvino, gli avventori di Capra ci informarono che il grande scrittore era sassarese: “Come Grazia Deledda”. Sorvolammo sulla Deledda sassarese, ricordi?, ma commettemmo l’errore di correggerli su Calvino
-Era la madre, di Sassari, non lui.
Apriti cielo. Fummo subissati da mitragliate di “cosa sei dizendi?” e di “si l’aggiu cunnusciddu eu cand’era minori e isthiazia in vicolo Bertolinis”.
Un saggio, un anziano che di solito stava zitto ma quando parlava scriveva un codice, commentò
-Emmu, i’ l’istrhinta undì abà, iscendi, v’è Ottica Delogu.
E fu il certificato di residenza di Italo Calvino.
C’era uno che non sapeva soltanto che era famoso, ma anche perché.
-Italo? A me lu sei dizendi? Ischribia! Sempri ischribendi, era. Don Camillo e Peppone e di chissi cosi.
Era gente così: convinta di quello che diceva.
Boh, eppure io ho nostalgia dei tempi in cui queste cazzate restavano al bar.
Oppure le leggende metropolitane.
Ricordi i tempi delle leggende metropolitane?
Quelle tipo i coccodrilli nelle fogne di New York o l’autostoppista fantasma. Sino a che non vennero codificate e raccontate sul piano antropologico, saggistica che si diffuse negli anni Settanta, le leggende metropolitane erano insidiose. Ti fottevano. Ricordo che in quegli anni venni messo dal mio capocronista alla caccia del ratto gigantesco importato da qualche paese orientale perché scambiato per cane e che faceva strage dei cani del quartiere. La leggenda, come tutte le leggende metropolitane, aveva la caratteristica che all’inizio ogni testimonianza ti sembrava quella buona, quella del testimone diretto, ma al momento di andare in macchina scoprivi che era un sentito dire, anche se da molto vicino: mio fratello, mia madre, il mio vicino di casa. E aggiungevano
-Quella cosa è successa a lui che me l’ha detta. Ora andiamo insieme a parlarci.
Allora tu telefonavi al capo e gli dicevi.
-E’ fatta, tra dieci minuti ho la conferma e scrivo il pezzo.
E invece neppure quello era un testimone diretto, anche lui lo aveva sentito dire.
Accadde che mentre inseguivo questo topone, uscì l’Europeo (magnifico settimanale diretto in quegli anni da Tommaso Giglio) con una delle prime inchiesta in Italia sulle leggende metropolitane. E raccontando l’esistenza di queste fandonie moderne straordinariamente radicate, il giornalista esordiva proprio con quella del topo-cane, sulla quale erano stati sguinzagliati, diceva, cronisti in tutta Italia.
Andai dal mio capo con l’Europeo in mano e una faccia strana.
Lui non mi diede il tempo di parlare
-Sì, l’ho letto anch’io. Non stiamo a parlarne in redazione e tu torna in tribunale a fare un po’ di cronaca seria anziché bighellonare alla ricerca di cazzate.
Però io in redazione ne avevo già parlato e per molti mesi il capocronista e io venimmo salutati ogni sera da numerosi squit squit e bau bau.
Accidenti, però, che nostalgia di queste balle che restavano al bar o che venivano depennate dalla coscienza popolare dal lavoro di uno pagato apposta per scoprire che erano balle e impedire che finissero sul giornale.
Ora se si sparge la voce che italo Calvino abitava in vicolo Bertolinis e che più giù, diciamo in via Insinuazione, c’è un topo gigante che si mangia i cani, non ci sono cazzi: ci possiamo dannare quanto vogliamo a dire che sono balle, ma ci saranno sempre un paio di ministri che faranno finta di crederci e milioni di loro seguaci che ci crederanno davvero.
Bah, adesso ho scritto anche troppo. E’ quasi mezzanotte e ho appuntamento con una tipa buona come il pane che quando passo di notte in via San Paolo mi chiama e mi fa capire che le piaccio. Chissà cosa ci fa a quell’ora dietro il cancello di Calamasciu.
Nato nel 1951, ottobre (bilancia, ma come tutti quelli della bilancia non crede nell'oroscopo). Giornalista dal 1973. Scrive anche altra roba. Ma gratis, quindi non vale.
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