La scuola immatura non è quella che viene in mente guardando la foto, tutt’altro.
Vorrei raccontarvi una storia successami ieri mattina. Una storia che parla di adolescenti, burocrazia, genitori, scuola, insegnanti seri e di un’insegnante a cui sfugge qualcosa di fondamentale.
Succede che la dirigente dell’Istituto comprensivo di La Maddalena, nei mesi scorsi, riunisce i genitori e li informa che a breve saranno costretti a ritirare personalmente i figli da scuola, o a delegare un adulto a farlo al posto loro. Preciso che si sta parlando di scuole medie e di ragazzi di età tra 11 e 14 anni.
La circolare 211 del 5 maggio mette nero su bianco questa disposizione. Da subito si crea un po’ di caos per l’aumento del traffico nelle strette viuzze su cui la scuola si affaccia, ma non è di questo che voglio parlare.
Una cosa che colpisce, leggendo la circolare, è che vi si fa generico riferimento alla “legge”, senza specificare quale. Non si tratta di un’omissione da parte della Dirigente. La verità è che la legge italiana è estremamente carente e sulla materia non stabilisce con chiarezza responsabilità e diritti, lasciando alla giurisprudenza il compito di metterci una pezza. La giurisprudenza, in modo non del tutto unanime, dice che i docenti sono responsabili e non possono lasciare che un minore esca da scuola non accompagnato. La misura di quanto sia surreale e a tratti idiota tutta questa storia, è il fatto che la stessa legge ritiene un quattordicenne capace di guidare da solo un motorino per tornare a casa, ma non di uscire da solo dal cancello della scuola. Inoltre, a colpi di giurisprudenza, va a farsi benedire il diritto dei genitori (e dei ragazzi), specie nelle realtà piccole, più umane e civili delle grandi città, di coltivare l’autonomia, che è importante quanto l’apprendimento della storia e della matematica. Ma i rischi –remoti- di incidente e quelli –ancora più remoti- di cause per risarcimento, spingono la scuola, la società, la politica, a rifugiarsi nella prudenza delle carte bollate, sacrificando la libertà di uno studente, in un paese di diecimila anime, di tornare a casa propria chiacchierando con gli amici. Tra l’altro, è come se la Scuola dicesse ai singoli genitori: “Io non posso accettare liberatorie, né posso fidarmi di voi sulla parola, ma voi fidatevi l’uno dell’altro, e scambiatevi le deleghe”. Questo significa scavare un solco tra un “noi” e un “voi”, rimarcare la distanza tra Scuola (sempre più barricata al suo interno per proteggersi dalla Società) e “i genitori”, pensati come parte di quella Società da cui potrebbero derivare per la scuola rogne ed eventuali denunce. La situazione è talmente surreale che alcune scuole accettano le liberatorie, altre nicchiano, altre ancora sono talmente rigorose nell’interpretare la giurisprudenza, che in alcuni paesi del Nord Italia i genitori hanno denunciato i docenti per sequestro di persona. Ma non è neanche di questo che voglio parlare.
Voglio parlare invece di qualcosa che si è rotto, e che questo rigore miope non fa che rompere sempre di più. Esiste un patto, da sempre, tra scuola e famiglie. È un patto che mette al centro i figli, considerandoli il bene più prezioso su cui una società possa contare. In nome di quel patto un genitore va in giro con le scarpe malandate pur di comprare un libro o uno strumento musicale a un figlio, o di mandarlo in gita con i compagni. In nome di quel patto un insegnante si trattiene a discutere con i genitori o i colleghi ben oltre l’orario di lavoro. In nome di quel patto genitori e insegnanti cercano di collaborare al meglio, dandosi fiducia a vicenda, che è fiducia nella capacità di insegnare, è fiducia nella capacità di seguire i ragazzi, è fiducia sul fatto che in caso di bisogno i genitori faranno la loro parte per sostenere le attività della scuola, prestando il proprio tempo e il proprio sostegno economico.
Succede però, ed è di questo che vorrei parlare, che due mamme si mettano d’accordo per ritirare le rispettive figlie quando una di loro non potesse farlo direttamente, e si scambiano le deleghe. Succede che nessuna delle due mamme, un giorno, possa farlo, che nessuno dei due padri possa, e che una delle due mamme deleghi me per prendere sua figlia insieme alla mia. Succede che in tarda mattinata mi si presenti un imprevisto di lavoro serio (anche chi non è insegnante può avere imprevisti di lavoro seri, nonostante qualche insegnante cui sfugge qualcosa di essenziale non se ne renda conto) e che io sia costretto a chiedere a mia suocera -di cui gli insegnanti si fidano- di ritirare mia figlia e la sua amica.
E succede che mia suocera mi telefoni e mi chieda di interrompere la riunione di lavoro e andare a prendere le ragazze, perché a lei non consentono di ritirarle.
Ovviamente, essendo l’unico genitore che poteva muoversi, pur con notevole disagio, mollo tutto e vado.
Non posso dire nulla agli insegnanti di mia figlia, che hanno applicato le regole in modo preciso, e hanno mostrato e chiesto comprensione difronte al mio evidente disappunto; mia figlia ha la fortuna di lavorare con professori eccellenti, sul piano professionale ed umano, che anche oggi, nel negarci quello che secondo me era un nostro diritto, hanno semplicemente fatto il loro dovere. Non posso neanche dire nulla della dirigente, che sta introducendo una norma assurda, costretta dalla pessima aria che tira.
Però posso dire tutto il male possibile di un’atrofia normativa che nega a un tredicenne il diritto di tornare a casa rimuginando da solo o ridendo con i suoi compagni, magari dopo aver percorso poche centinaia di metri, che costringe una madre a fare i salti mortali, più di quelli che già faceva, che mette un padre di fronte al fatto che la sua parola, la sua stretta di mano non ha, per il docente e la scuola, purtroppo, alcun valore. Oggi ho capito che non c’è fiducia reciproca che tenga, bisogna infilarsi dentro il preservativo ritagliato per noi dalla paranoia e dalla giurisprudenza, e mandare in malora anni e decenni di collaborazione e rapporti umani. Ne viene fuori l’immagine di una Scuola italiana immatura, incapace di dare fino in fondo il giusto peso alle relazioni con i partner di quel patto educativo: le famiglie. È inevitabile, mi si dirà. È comunque una sconfitta, rispondo io.
E posso pensare tutto il male possibile anche di quell’unica insegnante che ieri, nella situazione che vi ho descritto ha detto, di fronte ai ragazzi ancora presenti “che i genitori farebbero bene a muovere il sedere e venire a prendersi i figli” e che fosse stato per lei avrebbe chiamato i Carabinieri. Non lo ha detto davanti a me. Altrimenti le avrei spiegato cosa le sfugge di essenziale in tutta questa storia.
Nacqui dopopranzo, un martedì. Dovevo chiamarmi Sonia (non c’erano ecografi) o Mirko. Mi chiamo Luca. Dubito che, fossi femmina, mi chiamerei Sonia. A otto anni è successo qualcosa. Quando racconto dico sempre: “quando avevo otto anni”, come se prima fossi in letargo. Sono cresciuto in riva a mare, campagna e zona urbana. Sono un rivista. Ho studiato un po’ Filosofia, un po’ Paesaggio, un po’ Nuvole. Ho letto qualche libro, scritto e fatto qualche cazzata. Ora sto su Sardegnablogger. Appunto.
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