Ieri ho concluso la mia supplenza in una scuola superiore di Calangianus. È durata due mesi e, tra le altre cose, ha contribuito a farmi cambiare idea circa l’abuso di una espressione che ritenevo odiosa: “Siamo una grande famiglia”. Ci ho sempre visto un viscido fondo di ipocrisia, in quel luogo comune, un pretestuoso invocare fratellanza, forse da quella volta che un collega noto per la feroce ambizione lo usò in un’assemblea di giornalisti, cui partecipava per la prima volta. Invece ci sono davvero dei posti che sono grandi famiglie e quell’istituto professionale di Calangianus, capitale sarda del sughero e genia di imprenditori per vocazione, una grande famiglia lo è. Non scrivo queste righe per celebrare chissà cosa. Le scrivo perché mi sono convinto che il senso dello Stato più profondo sia in queste piccole sedi della piccola provincia, nelle quali si mescolano istituzione, cultura del territorio è una prossimità fisica tra studente, insegnante e le loro famiglie che, nei fatti, significa conoscenza diretta. Ci si conosce appunto tutti e gli studenti, comunicando tra loro in un gallurese netto, sanno tutto delle famiglie dei loro compagni. Questo significa che ci si può aiutare, secondo le abitudini delle comunità. Ci si tende la mano, perché i ragazzi hanno esattamente gli stessi problemi dei loro coetanei di Roma, Ascoli o Bressanone. La logica degli accorpamenti, delle concentrazioni delle scuole laddove le comunità siano più numerose, sembrerebbe dire che queste piccole scuole siano tagliate fuori dal progetto di Stato dimensionato e dislocato sulla asettica analisi dei numeri. Ma lo Stato non deve essere un calcolo da ragionieri, lo Stato deve essere ovunque e convivere coi luoghi. Gli iperliberisti vedrebbero in una piccola scuola come questa l’esempio dello spreco, risorse e stipendi buttati via per un’ottantina di ragazzi, ma gli iperliberisti vedono il male assoluto ovunque sentano odore di pubblico. Gli iperliberisti, fosse per loro, privatizzerebbero pure la scuola. Lasciamoli ai loro deliri. Negli sforzi dei docenti con cui ho lavorato si avverte, incombente, questa precarietà, la necessità di stringere i denti e remare nella stessa direzione per difendere il loro piccolo presidio dello Stato, che significa educazione, creazione di professioni, rispetto del territorio. Se questa scuola ha un leader, questo capo carismatico si chiama Margherita: è la bidella, è una bidella da trent’anni e ha una risposta o una sgridata per tutti. Potrebbe tirare i remi in barca, invece no: la scuola è la sua vita. Sa che non ci può essere futuro senza scuola, senza la possibilità per ogni ragazza e ragazzo di realizzarsi. Indipendentemente dal luogo di nascita, dalla famiglia di provenienza, dai numeri, dagli iperliberisti con la calcolatrice nel taschino.
Nato nel 1971 ad Arzachena ed ivi smisuratamente ingrassato negli anni seguenti, figlio di camionista e casalinga. Titoli appesi alle pareti: laurea in Lettere moderne all'Università di Sassari, iscrizione all'albo dei giornalisti professionisti, guida nazionale di mountain bike, presidente della Asd Smeraldabike, direttore della testata Sardegnablogger. È stato redattore di tre diversi quotidiani sardi: dal primo è stato licenziato, gli altri due sono falliti. Nel novembre del 2014 è uscito il suo primo romanzo, "Cosa conta".
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