Abbiamo improvvisamente riscoperto il problema dello spopolamento della Sardegna e dei piccoli centri che muoiono, abbandonati da abitanti sfiduciati. Sia detto senza sarcasmo, perché l’emorragia è serissima e molti piccoli amministratori – Emiliano Deiana, uno tra tutti – vi si battono con tenacia da anni, senza cali di tensione. Precisato che non tutti quelli che vanno via lo fanno per miseria, ma spesso anche perché si ha la legittima aspirazione di ampliare le proprie vedute, di confrontarsi, di vedere altro. Molti si chiedono come sia possibile, ad esempio, che i piccoli centri dell’Italia alpina e dolomitica non accusino questo problema e, anzi, abbiano dati demografici in crescita. Chi frequenta quelle zone – io l’ho fatto per molti anni – ha avuto modo di conoscere centinaia di sardi occupati in bar, ristoranti e discoteche delle località sciistiche. E quando gli si chiede perché abbiano preferito le nevi alla Sardegna, rispondono tutti allo stesso modo: “Qua la stagione turistica dura dieci mesi, da noi tre se va bene. In Sardegna non avrei abbastanza di che vivere, qua sì”. Il turismo di montagna vive di sci in inverno, aria buona, passeggiate e bicicletta in estate. Ad agosto, a Cortina si registra lo stesso tutto esaurito dell’ultimo dell’anno. Però ad agosto, negli alberghi, il cliente trova le guide con gli eventi e le manifestazioni di dicembre e, se ci va a dicembre, vi legge quanto quella data località proporrà nell’estate successiva. La programmazione viaggia regolarmente con molti mesi d’anticipo. Questa industria muove tutto un indotto produttivo che alimenta e da cui viene alimentata. E in Sardegna? Da noi le stagioni turistiche durano sempre meno e se provate oggi ad inviare una mail alle strutture alberghiere o ai Comuni, per conoscerne la programmazione estiva, questa mail vi tornerà indietro inevasa, perché nessuno vi risponde. Per anni ci hanno raccontato che il turismo significasse spargere cemento per farne villette a schiera ad uno sputo dalla spiaggia (ad Olbia si è arrivati addirittura ai palazzoni sul mare). La gente dei paesi, attirata da questa immediata prospettiva di lavoro, ha comprensibilmente scelto gli impieghi nel turismo, come chiunque in quelle condizioni avrebbe fatto. Ma un turismo che si regge sull’equivoco dei cantieri spacciati per sviluppo e su tre mesi di stagione non basta e non crea indotto. Serve, ma non basta. Quando venne introdotto il Piano paesaggistico e si stabilì che questo inutile sacco delle coste dovesse finire e che occorresse guardare all’entroterra, voci rabbiose si levarono per contestare quella linea: il cemento andava difeso, gli speculatori immobiliari tutelati. Non lo so se quella del Piano paesaggistico fosse la strada giusta, so che era un tentativo di offrire una risposta a questo problema.
Molte di quelle voci, quelle della feroce contestazione al Piano paesaggistico, sono le stesse che oggi levano il loro grido di dolore per denunciare l’abbandono dei paesi e lo spopolamento delle campagne.
Nato nel 1971 ad Arzachena ed ivi smisuratamente ingrassato negli anni seguenti, figlio di camionista e casalinga. Titoli appesi alle pareti: laurea in Lettere moderne all'Università di Sassari, iscrizione all'albo dei giornalisti professionisti, guida nazionale di mountain bike, presidente della Asd Smeraldabike, direttore della testata Sardegnablogger. È stato redattore di tre diversi quotidiani sardi: dal primo è stato licenziato, gli altri due sono falliti. Nel novembre del 2014 è uscito il suo primo romanzo, "Cosa conta".
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