Esattamente quarant’anni fa, pochi mesi prima della sua morte, Pierpaolo Pasolini scrisse il celebre articolo sulla scomparsa delle lucciole. Un nuovo fascismo avanzava, in quegli anni, prepotente, secondo PPP: un fascismo cieco e ottuso, diverso da quello precedente che, in fondo, non aveva neppure scalfito l’anima degli italiani. “Ho visto dunque “coi miei sensi””, scrive nel celebre articolo pubblicato nel Corriere della Sera il 1 febbraio del 1975, “il comportamento coatto del potere dei consumi ricreare e deformare la coscienza del popolo italiano, fino a una irreversibile degradazione.” Una degradazione irreversibile, da non accorgerci che l’inquinamento chimico e fisico delle campagne portava alla scomparsa degli insetti luminosi, ovvero di un elemento biologico del paesaggio italiano che per secoli ha accompagnato, come potente simbolo, l’immaginario popolare. Era il periodo in cui la grande ondata del “boom economico” iniziava la sua risacca: l’Italia era cresciuta economicamente più di ogni altra nazione europea. Una crescita tumultuosa e disordinata, che aveva portato i contadini nelle fabbriche e negli appartamenti costruiti alla periferia delle grandi città, con i primi elettrodomestici, la televisione, i dischi della musica commerciale, i prodotti usa e getta, la plastica, le utilitarie in coda d’estate nelle autostrade. Si compiva quella trasformazione da una economia di sussistenza, contadina, in cui il fascismo aveva attecchito con i suoi valori tradizionali, a una economia industriale, mercantile, di consumo, quella che Karl Polany ha definito come disumanizzante, la Grande Trasformazione. Pasolini criticò la classe dirigente del paese dell’epoca, la quale, in realtà, già da allora, era subordinata ad un potere finanziario ed industriale che dettava le regole dell’egemonia culturale della società italiana. Era, se vogliamo, l’applicazione concreta dell’intuizione del concetto di “egemonia” di Gramsci. “Per mezzo della televisione”, disse PPP in una intervista pubblicata qualche anno prima nel Corriere della Sera, il Centro ha assimilato a sé l’intero paese che era così storicamente differenziato e ricco di culture originali. Ha cominciato un’opera di omologazione distruttrice di ogni autenticità e concretezza. Ha imposto cioè – come dicevo – i suoi modelli: che sono i modelli voluti dalla nuova industrializzazione, la quale non si accontenta più di un “uomo che consuma”, ma pretende che non siano concepibili altre ideologie che quella del consumo. Un edonismo neo-laico, ciecamente dimentico di ogni valore umanistico e ciecamente estraneo alle scienze umane”. Quella società dei consumi denunciata da Pasolini già nei primi anni ‘70 ha proseguito nella sua inarrestabile avanzata, confinando in ambiti sempre più ristretti quell’umanità che Polany invocava come autentica, soffocata dal peso di un mercato che deforma le originarie prerogative degli scambi economici. Se la lucciola era il simbolo della luce naturale, quella di una società che si orientava prima della rivoluzione della tecnica e della luce artificiale, l’orango è la parodia stessa degli umani, la specie speculare da osservare come metafora tragica della propria autodistruzione. In tutto il mondo, da secoli, i popoli della foresta, indios, pigmei, aborigeni sono uccisi, decimati, o trasformati nella caricatura di loro stessi. L’uomo mercantile avanza e, con tutti gli stratagemmi leciti o illeciti possibili e immaginabili, distrugge le foreste e le creature che ci stanno dentro, compresi i propri simili. Alla trasformazione delle nostre campagne in supporti fisici per pratiche agricole chimiche ed industriali, si è accompagnata la distruzione delle aree verdi del pianeta, per il legname, il caucciù, la carne bovina, la soia e, ora, per l’ultimo grande business del nostro tempo, l’olio di palma. L’avanzata della coltura dell’olio di palma, specie nelle foreste tropicali dell’Indonesia e dell’Indocina, è devastante e inarrestabile. Gli oranghi, esseri così simili a noi per comportamenti, per genetica, per sentimenti, per intelligenza, rappresentano, in quanto protetti da convenzioni anche internazionali, un problema. Spesso a causa del problema che rappresentano vengono uccisi, sempre che non muoiano bruciati negli incendi che vengono di proposito appiccati nelle foreste per ampliare le coltivazioni di palma. La retorica animalista, direbbe, a questo punto, che “le bestie siamo noi”. La retorica tipica ora vorrebbe lanciare strali e accuse contro la Nestlè e le altre multinazionali che utilizzano l’olio di palma. Il web è pieno di invettive animaliste contro la loro avidità. Giusto. Però, fuori dalla retorica, la lezione di Pasolini è anche un altra: ci hanno cambiato pure a noi, quelle multinazionali. L’orango ci osserva, muto, mentre prendiamo la macchina per fare cento metri, intasando l’aria di gas di scarico, magari per andare in palestra per smaltire quei grassi saturi di troppo che ingurgitiamo per disgrazia di una alimentazione industriale e malsana. Nel diventare figli del benessere e per seguire l’ideale totalizzante del consumo, non è più concepibile sedersi a tavola, a colazione, senza i prodotti da forno. Il pane tagliato a fette è demodè, non fa famigliola felice del mulino bianco, non fa contenta la nonna della pubblicità e i vari animaletti che, per colmo dei colmi, animano le scenette con i biscottini e le merendine che ingurgitano bambini paffuti e sorridenti. Per adeguarci a quel modello culturale egemonico, oggi, compriamo i biscottini e le merendine, prodotti che per adeguarsi alle possibilità economiche degli stipendi fermi da anni, utilizzano il grasso meno costoso, l’olio di palma. L’invasione di questo ingrediente è totale, è mostra il potere assoluto, ormai, di quell’edonismo totalizzante che aveva previsto PPP. Vittime di una alterazione colpevole della nostra percezione gustativa, ci uniformiamo su prodotti che non sappiamo neppure come sono fatti. L’importante è che abbiano quel gusto tipico, alla quale ci siamo adeguati. Il resto lo fa il mercato, ovvero il prezzo. E’ il principio edonistico all’ennesima potenza. Forse per lenire i nostri sensi di colpa inconsci, l’alimentazione dei nostri “pet”, i nostri cagnolini, i nostri gattini, è sempre più sofisticata e raffinata, tanto da alimentare una fiorente industria, mentre, nel paradosso, la qualità della nostra alimentazione, invece, si è abbassata, perché ingurgitiamo in questo modo, per seguire quel modello di cultura alimentare imposto, sin dalla mattina, grassi saturi, notoriamente dannosi per l’organismo. Come dice il Prof. Berrino, abbiamo finito per mangiare merda. Nel frattempo il buon cuore animalista moderno viene rapito e deformato da quella stessa cultura egemonizzata, industriale, cittadina e borghese, la stessa che prende in braccio l’agnellino e ci fa dispiacere mangiarlo, e poi ci obbliga, di fatto, ad ingurgitare l’olio di palma, i cibi transgenici, la carne anabolizzata e chimica. L’animalismo retorico e borghese si indigna di fronte alla strage degli agnelli pasquali, ma ci adesca, ci fa l’occhiolino, quando abbassa il prezzo del biscottino e dello snack. E così troveremo una giustificazione ideologica per poterlo mangiare, quello snack così conveniente, che tanto lo stesso occhio che piange per l’agnellino, poi non vede la foresta con tutte le sue creature distrutta, non vede l’orango bruciato, torturato e ucciso, e non duole. L’orango ci osserva, muto, e non capisce. Non capisce come si possa stravolgere così il senso naturale delle cose. Non capisce perché è un dramma mangiare un alimento sano e genuino come, ad esempio, l’agnello sardo, che ha vissuto il suo ciclo vitale come essere felice di questo pianeta anche se dal destino già deciso, e non si indigna a vedere un mondo che mette insieme boschi, armi, palazzi, macerie, uomini e animali tutti nello stesso tritacarne deformante di un egoismo consumistico che ci ha reso degli automi avidi, privi di logica e cervello. C’è un ciclo naturale delle cose, un ciclo vitale che non fa colpa, che non fa peccato. La natura, tutta, si muove e si rigenera per cicli. La vita e la morte si amano dentro quel ciclo, e senza l’uno non ci può essere l’altra. Noi esseri umani, esaltati dalla potenza della scienza e della tecnica, ci siamo illusi di poter spezzare il ciclo vitale delle cose, di vivere per l’eternità, dentro una visione lineare del tempo, e di portare con noi i nostri “pet”, i nostri cuccioli preferiti. Non è così. Vita e morte sono uniti in un abbraccio vitale e mortale, e prima ci togliamo dalla nostra mente quell’illusione, e prima ristabiliamo il senso naturale delle cose e l’armonia con la natura e il mondo che ci circonda. La distruzione della foresta, attuata in quel modo, è fuori dal ciclo naturale delle cose, perché non si rigenera. E’ dentro l’idea edonistica e consumistica, di sfruttamento ad oltranza delle risorse del pianeta, senza rispetto per la vita di uomini, animali e piante. E’ un sistema monocolturale che crea sfruttamento economico e sottosviluppo, una modalità agricola che porta povertà da una parte, in loco, e sovralimentazione e malattie dall’altra. L’orango, stupito, si porta sulle spalle il mondo. Passando da un albero ad un altro, appeso ad un ramo come un bimbo sull’altalena, osserva, in lontananza, la frenesia distruttiva di quelle scimmie così simili a lui e così potenti. Capisce che è giunto il momento di fuggire lontano: ma forse non sa ancora che la foresta, la sua casa, è sempre più piccola, e le vie di fuga sempre di meno. Foto tratta dal sito “campagneperglianimali.org”
Foto di copertina tratta da “omissisnews”
Fiorenzo Caterini, cagliaritano classe '65. Scrittore, antropologo e ambientalista, è studioso di storia, natura e cultura della Sardegna. Ispettore del Corpo Forestale, escursionista e amante degli sport all'aria aperta (è stato più volte campione sardo di triathlon), è contro ogni forma di etnocentrismo e barriera culturale. Ha scritto "Colpi di Scure e Sensi di Colpa", sulla storia del disboscamento della Sardegna, e "La Mano Destra della Storia", sul problema storiografico sardo. Il suo ultimo libro è invece un romanzo a sfondo neuroscientifico, "La notte in fondo al mare".
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