Se state parlando con un insegnante e questo afferma:
– Per me gli alunni sono tutti uguali! –
non credetegli: o è talmente anaffettivo da vedere solo dei nomi e cognomi in fila sul registro, oppure sta raccontando balle.
E se un giorno doveste capire che io condivido questo livellamento emotivo, colpite.
Colpite senza alcuna compassione.
Però mirate giusto.
Gli studenti, quei ragazzi con cui trascorriamo molte ore quotidianamente, non sono affatto tutti uguali. E non lo sono né in relazione alla loro indiscussa individualità, che va riconosciuta e rispettata, né in relazione al gradimento dei docenti.
Esistono studenti che, indubbiamente, col loro comportamento si fanno voler bene più di altri, ce ne sono alcuni le cui doti sono un po’ più nascoste e ci vuole del tempo per scovarle, ce ne sono infine degli altri le cui doti non le scopri nemmeno in tutto il periodo di convivenza forzata nell’aula nonostante le cerchi disperatamente. Usando una semplificazione abbastanza riduttiva, ci sono alunni simpatici e altri che lo sono un po’ meno. Esattamente come lo siamo noi docenti per gli alunni. Ma se loro sono dei ragazzini che si lasciano trasportare dall’istinto adolescenziale, noi siamo adulti e trovare un equilibrio nei rapporti con loro spetta a noi professori, che non dobbiamo disseminare di ostacoli il loro percorso scolastico, nemmeno quando abbiamo a che fare con uno di quei ragazzi che non ci risulta immediatamente simpatico. Quello che non deve cambiare, invece, è il criterio di valutazione. Non dobbiamo permettere che la presenza dell’affetto, o la sua carenza, offuschi l’imparzialità di giudizio.
Di contro, anche quando vostro figlio vi racconta che gli è stato lasciato il debito, o è stato bocciato, perché era antipatico a questo o quel professore non credetegli: in 20 anni d’insegnamento non ho mai conosciuto un collega che si abbassasse a fare simili dispetti o condizionasse un intero consiglio di classe a seguirlo nella sua presunta avversione per uno studente.
Per me gli alunni non sono tutti uguali, anzi, ritengo siano quasi tutti diversi. E, tra tutti, spicca il ricordo di uno che è stato un vero e proprio balsamo per le ferite. Un unguento da depositare su quelle professionali, derivate da studenti che non sono riuscita a coinvolgere come avrei voluto, sulle lesioni scaturite dall’autocritica di non aver fatto abbastanza. Un antidoto al bullismo, un rimedio a tutti i conflitti adolescenziali che ronzano all’interno delle classi.
Prendete un bambino, immergetelo a lungo in una bacinella piena d’acqua e gettoni telefonici. Quelli che si usavano un tempo nelle cabine, che avevano un solco in una faccia e due solchi nell’altra. Il colore si trasmetterà quasi per osmosi alla chioma.
Ecco, lui aveva dei capelli color gettone telefonico.
Era piccolo, più piccolo dei suoi compagni di classe e non alludo solo alla stazza. Aveva un anno in meno perché a 5 anni ha varcato il portone della scuola primaria. Dodici mesi sono niente, se valutati in rapporto ad un congruo numero di primavere sulle spalle, ma alla sua età sono tantissimi.
Lo chiameremo Antonio, con un nome di fantasia.
Antonio arrivava a scuola con la sua chioma rosso gettone, disciplinata a casa da un pettine bagnato. Non era gel, no! Perché io l’osservavo nel corso della mattinata e dopo qualche ora i capelli si asciugavano. Antonio aveva una fila di denti dispettosi e disordinati che un apparecchietto ortodontico cercava di educare a mettersi in fila.
Il primo giorno di scuola si era sistemato autonomamente al primo banco, cosa che nessun altro fa mai, ed aveva seguito con estrema attenzione la lezione. Non un calo d’interesse, non una distrazione, non una mano alzata per sgranchire le gambe con la scusa di andare al bagno.
Sono un po’ preoccupata – mi aveva detto la mamma in occasione degli ultimi colloqui – lui è entrato a scuola a 5 anni e tutti me l’avevano sconsigliato. Mi hanno detto che quell’anno in anticipo lo perderà, prima o poi.
– Non è detto, signora. Anch’io ho fatto la primina e quell’anno non l’ho mai perso – le avevo risposto, cercando di rassicurarla.
Era vero quel che le avevo detto, ma è anche vero che tutti i manuali di pedagogia e psicologia dell’età evolutiva sconsigliano di anticipare i tempi di scolarizzazione, perché si strappa un anno di gioco con ricadute negative sul percorso scolastico e bla bla. Ma io volevo placare l’ansia di quella mamma e le avevo offerto delle solide risposte univoche, tranquillizzanti ed essenziali. Piccole rassicurazioni in grado di spianarle le rughe della fronte e ammorbidirle il diaframma.
Antonio, nei compiti in classe, metteva l’accento acuto sul “né” quand’era negazione. E solitamente è già una botta di culo se a quell’età sistemano l’accento sul verbo essere alla terza persona.
In tutto un quadrimestre non l’ho mai colto impreparato. Era sua abitudine organizzarsi e venire volontario non appena si apriva il girone delle interrogazioni, ma anche quando gli capitava una verifica a sorpresa rispondeva dignitosamente a tutte le domande. Mai scoperto col cellulare in mano, mai beccato a mangiare di nascosto prima della ricreazione. Alla pausa andava al bar, comprava il suo panino e lo mangiava in tranquillità combattendo con quell’apparecchio ortodontico. Se al suono della campana non aveva terminato il suo pasto non mi chiedeva, come qualche suo compagno, di poter finire il cibo durante la lezione. Semplicemente riavvolgeva il resto nella busta che lo conteneva e lo riponeva dentro lo zaino.
Antonio era un ragazzetto sereno e responsabile. Educato e rispettoso, ma non passivo. Aveva un anno in meno dei suoi compagni e prima o poi avrebbe dovuto essere bocciato, decreta la scienza dell’educazione. Non è accaduto e penso che non accadrà in futuro.
E sono felice di aver avuto un alunno che alla pedagogia e alla psicologia dell’età evolutiva le ha prese a calci nel culo!
La piccola Romina nasce nel '67 e cresce in una famiglia normale. Riceve tutti i sacramenti, tranne matrimonio ed estrema unzione, e conclude gli studi facendo contenti mamma e papà. Dopo la laurea conduce una vita da randagia, soggiorna più o meno stabilmente in varie città, prima di trasferirsi definitivamente ad Olbia e fare l’insegnante di italiano e storia in una scuola superiore. Ma resta randagia inside. Ed è forse per questo che viene reclutata nella Redazione di Sardegnablogger.
Renatino e i misteri di Roma (di Giampaolo Cassitta)
Cara Cora (di Francesco Giorgioni)
The show must go on (di Cosimo Filigheddu)
Vincerà Mengoni. Però… (di Giampaolo Cassitta)
Ero Giorgia, e ricanto. (di Giampaolo Cassitta)
Piacere, Madame. (di Giampaolo Cassitta)
Se son fiori spariranno (di Giampaolo Cassitta)
Ma Sanremo è Sanremo? (di Giampaolo Cassitta)
Pacifisti e pacifinti (di Simone Floris)
Lo specchietto (di Salvatore Basile)
Da San Gavino a San Cristoforo, quando colonizzammo il Villaggio Verde. Ovvero il trasloco (di Sergio Carta)
Se riesco a buscare 5000 Lire ci vediamo allo Zoom, ovvero le pomeridiane in discoteca degli anni’80. (di Sergio Carta)
Papa Fazio (di Cosimo Filigheddu)
Inserisci il tuo indirizzo e-mail per iscriverti a questo blog, e ricevere via e-mail le notifiche di nuovi post.
Indirizzo e-mail
Iscriviti
sardegnablogger ©2014 created by XabyArt - graphic & web design