Fa un certo effetto, oggi, rievocare quello che successe tre quarti di secolo fa, tra l’aprile e il maggio del 1943, quando gli ebrei del ghetto di Varsavia lottarono fino allo stremo finendo trucidati dai nazisti. Fa un certo effetto oggi di fronte agli strani capovolgimenti della storia, che ci spingono verso esami di coscienza profondi e dolorosi. Il Ghetto di Varsavia fu istituito dal regime nazista, dopo l’occupazione tedesca del ’39, nel 1940, e conteneva circa mezzo milione di abitanti, il più grande tra i ghetti nazisti europei. Divenne presto il luogo di detenzione della popolazione ebraica. Nell’agosto del 1940 iniziò la costruzione del muro per separare il ghetto dal resto della città, con l’ordine di sparare a vista anche solo a chi si fosse avvicinato troppo ad esso. Nel 1942 iniziarono le deportazioni di massa verso i campi di concentramento ma, nel frattempo, decine di migliaia di persone erano morte di stenti o di malattie, anche in considerazione delle epidemie di tifo e altre infezioni causate dall’affollamento e dalla malnutrizione. Per due mesi i treni fecero la spola verso i campi di concentramento, finendo per eliminare centinaia di migliaia di ebrei, si calcola nell’ordine dei 250 – 300 mila solo provenienti da Varsavia. Nell’aprile del 1943 scoppiò la rivolta nel ghetto, conosciuta come la Rivolta del Ghetto di Varsavia, la quale terminò il 16 Maggio del 1943. Non avendo più nulla da perdere, i sopravvissuti si opposero ai trasferimenti verso i campi di sterminio con ogni mezzo. I vertici nazisti penarono non poco per riportare la pace a Varsavia, con l’uccisione di miglia di ebrei rivoltosi, definiti, da costoro, come “delinquenti”. Per anni la nostra coscienza è stata posta sotto lo spettro del senso di colpa per quello che noi, europei, nel corso dei millenni e in particolare nel periodo del nazismo, abbiamo fatto con la persecuzione verso il popolo degli ebrei. Quel senso di colpa che ha comportato pentimenti diffusi e generalizzati, il tabù dell’antisemitismo, celebrazioni della memoria e rievocazioni per non sbagliare più, per non dimenticare e porre fine, mediante la piena accettazione nel mondo dei “bianchi” europei, ricchi e occidentali, del popolo ebreo. Ma oggi ci troviamo di fronte ad una ambasciatrice israeliana che, in Belgio, di fronte all’ennesima strage compiuta nella Striscia di Gaza, definisce terroristi persino le vittime bambine dei palestinesi. Così, di fronte a questo capovolgimento della storia, l’establishment occidentale e i media mainstream di meglio non sanno fare che arrampicarsi, penosamente, sugli specchi. Così vengono partorite cose del tipo “L’ordine delle moschee, la corsa verso i proiettili”. Come se vi fosse uno strano fanatismo religioso e suicida che spinga la gente a buttarsi verso i proiettili che, in totale neutralità e senza un responsabile che ve li abbia messi, stanno lì, vaganti, ignari di quello che succede. Ops, scusate, stavo vagando nell’aria quando ho colpito un palestinese che mi correva incontro. E così Hamas diventa un tormentone da tirare fuori in continuazione, come valido pretesto di tutti gli orrori. Ma c’è Hamas. Quindi, dato che c’è Hamas, nessuno diritto per questa povera gente. C’è Hamas, ma a morire sono sempre i palestinesi. E’ una difesa, principalmente, del capitale, degli affari, e degli interessi geopolitici. Ma è indubbio che, di fronte a questa penosa arrampicata sugli specchi, non possono che avere un peso i profondi sensi di colpa per quello che è stato, per quello che abbiamo fatto nel passato. Per anni tutta la retorica in stile Hollywood ci ha tempestato di immagini in cui erano i nativi americani, “gli indiani”, le ombre rosse, ad attaccare i coloni americani di origine europea che avevano invaso il loro territorio. Mai il contrario. E’ l’inversione della causa con l’effetto, che riesce agli intenti manipolatori della coscienza civile. Ora la nostra coscienza si trova a fare i conti con i morti e i massacri di questa parte del mondo chiamato Striscia di Gaza, luogo chiuso da un muro altissimo, con oltre un milione e 600 mila abitanti e con la densità abitativa di oltre 4570 abitanti per chilometro quadrato. Densità abitativa che cresce a ritmo vertiginoso, in un luogo dove la gente non ha futuro, non ha speranza, dove non si può spostare, dove viene incarcerata e, spesso, assassinata illegalmente e brutalmente con un frequenza spaventosa. Non c’è riabilitazione delle nostre colpe, non c’è redenzione. Alle colpe si sommano altre colpe. E c’è ancora chi si scandalizza, si indigna, tira fuori denti e unghie, alza la voce e accusa, a chiamare le cose con il loro nome. La Striscia di Gaza è un ghetto. 75 anni dopo.
Fiorenzo Caterini, cagliaritano classe '65. Scrittore, antropologo e ambientalista, è studioso di storia, natura e cultura della Sardegna. Ispettore del Corpo Forestale, escursionista e amante degli sport all'aria aperta (è stato più volte campione sardo di triathlon), è contro ogni forma di etnocentrismo e barriera culturale. Ha scritto "Colpi di Scure e Sensi di Colpa", sulla storia del disboscamento della Sardegna, e "La Mano Destra della Storia", sul problema storiografico sardo. Il suo ultimo libro è invece un romanzo a sfondo neuroscientifico, "La notte in fondo al mare".
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