Provate a immaginare una famiglia normale, o magari benestante, o perché no, abbastanza ricca, di una città indiana come New Delhi o Bombay, riunita per pranzo o per cena. A parte l’odore dei cibi e le fogge e i colori degli abiti, probabilmente, sul loro tavolo non sarebbe difficile immaginare una cosa a noi molto familiare: una bottiglia di Coca Cola. Adesso provate a immaginare uno stato come il Rajasthan, con i suoi 69milioni di abitanti distribuiti in una superficie occupata per gran parte dal vasto deserto del Thar. Nel piccolo villaggio di Kaladera una famiglia di contadini riunita a tavola potrà avere una bottiglia di Coca Cola, ma paradossalmente, potrebbe non avere acqua. I suoi componenti potrebbero rivolgersi sguardi preoccupati per le difficoltà nel coltivare il loro pezzo di terra. A Kaladera, nel 1999, conobbero la globalizzazione: aveva un’etichetta rossa. A Kaladera i suoi poveri abitanti intravidero quello che veniva presumibilmente presentato come uno dei simboli del benessere proveniente dall’Occidente: aveva il sapore inconfondibile della Coca Cola.
La multinazionale scelse Kaladera e altri villaggi per installarvi i suoi impianti di imbottigliamento. Produrre la magica bevanda, risciacquare le sue bottiglie dall’inconfondibile design significava una cosa: utilizzare enormi quantità d’acqua, risorsa dalla quale dipendevano e dipendono lavoro e sostentamento dei contadini. Alla sottrazione di acqua seguirono gli inquietanti risultati del CSE indiano, Istituto per la Scienza e l’Ambiente, che rivelarono la presenza di sostanze chimiche vietate nella bevanda.
Se le proteste non si sono fatte attendere, fino a coinvolgere altri stati oltre a quello del Rajasthan – Uttar Pradesh, stato della turistica Varanasi, il Kerala – sì, quello del caso marò – la Coca Cola ha avuto in questi anni dalla sua le armi in dote a tutte le multinazionali, come sottolineano dal sito waronwant.org, in prima linea nella denuncia contro lo strapotere di Coca Cola nel mondo: la propaganda commerciale. Lo sappiamo benissimo anche noi italiani, memori dello strombazzato “Nutrire il Pianeta” degli altrettanto strombazzati fasti di Expo 2015 dove lo stemma Coca Cola era a fianco a quello di McDonalds. Un paradosso già sperimentato in occasione del World Water Forum di Città del Messico del 2006: indovinate chi era lo sponsor dell’evento che doveva cercare di risolvere il problema del miliardo di persone che al mondo non hanno accesso all’acqua. Sì, ancora lei, l’amata Coca Cola. Ci sono i portavoce, quelli che in occasione del Forum risposero a chi storceva il naso: “Abbiamo preso un serio impegno per assicurare un adeguato accesso all’acqua: tra il 2000 e il 2004 abbiamo ridotto l’utilizzo di acqua in India del 24%”. C’è la comunicazione sui siti ufficiali: se andate a curiosare sul sito di Coca Cola India, potete visitare la sezione “sostenibilità”: “l’acqua è il fattore principale per la sostenibilità e un business prioritario per Coca Cola”. Appunto. Ci sono poi gli spot, gli ashtag e le star di Bollywood e tutto il resto: guardate ad esempio la romantica storiella tra Siddharth e Alia, sotto: lei è triste, ma chiede una bottiglia di Coca Cola, il dolce Siddhath la accontenta e le torna il sorriso. Tutto questo, però, non è bastato. Dopo le chiusure nel Kerala -sì, quello del caso dei marò- e della fabbrica di Varanasi, quattro giorni fa i media indiani hanno diffuso la notizia della nuova vittoria: il colosso delle bollicine ha sospeso le attività degli impianti del Rajasthan. Viva l’India, viva il Kerala e il Rajasthan, viva i contadini di Kalandara. E i marò? No, quelli, stavolta no.
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