Quando vi trovate davanti una persona pensate sempre che dentro ci sia un universo di storie. Il problema principale è che pochi sono in grado di raccontarle, di camminare dentro quel labirinto narrativo che è la vita. Parto da questa piccola considerazione che dovrebbe essere valida per ogni romanzo e per ogni uomo che calpesta il suolo terrestre e penso che il problema non siano le storie che ognuno di noi nasconde tra le proprie tasche, ma il modo con cui quelle storie possono, eventualmente, essere narrate. Per farvi capire la bellezza del libro di Gianni Caria “Il presidente addormentato” (Bibliotheka edizioni) parto da un altro libro, un piccolo capolavoro della letteratura italiana: Il deserto dei Tartari, di Dino Buzzati.“Ora Drogo mirava il mondo del settentrione, la landa disabitata attraverso la quale gli uomini, si diceva, mai erano passati. Mai di là erano giunti nemici, mai si era combattuto, mai era successo niente”. Ecco, Buzzati con il suo libro compie un’operazione quasi impossibile: riempire quel niente, quella spasmodica attesa di un nemico che mai sarebbe giunto. E’ questo il destino dei due protagonisti principali del libro di Caria ed è, se vogliamo, il destino di un certo modo di osservare le cose oggi: sospendere il futuro. I personaggi, Il presidente della Repubblica Anita Bertoli e il suo corazziere raccontano ciò che non accade, ciò che rimane sospeso perché lei, Anita Bertoli, è finita in ospedale a seguito di un malore mentre esaminava la lista dei ministri di un nuovo governo. Il suo corpo non reagisce, non si muove, è paralizzato, come l’intera nazione. Tutto leggermente si dipana e comincia a prendere la forma del valore dell’assenza, quella malattia che costringe al silenzio il Presidente, quel lavoro che costringe il corazziere al silenzio e al dovere, quel silenzio che raggomitola le vite si intreccia con il sistema paese e con quello che è stato. Così, davanti al corazziere “guardiano di un faro spento” si snodano le vite e le storie, si scoprono gli intrecci di molte vite che hanno contribuito a costruire Anita Bertoli e il corazziere. Caria ci trasporta dentro un mondo sospeso che ha una certa gravità sociale e politica ma che, incredibilmente, non sembra interessare a nessuno. Come se il futuro non dovesse avere un peso, come se non sia necessario lo sguardo limpido di quello che dovrebbe accadere. Tutti i personaggi si immergono nel lago dei ricordi, provano a farci capire perché sono arrivati da quelle parti, perché i loro pensieri si intrecciano con quelli di un paese ingobbito e livido, perché dentro il cestino delle vite ci deve essere posto per le emozioni, le passioni, gli abbracci. Caria utilizza un narrare aulico, anch’esso sospeso tra le intersecazioni della vita dei personaggi che lentamente vengono a galla da quel lago antico e quasi dimenticato. Si parla di giustizia, di ingiustizia, di libertà, di partigiani, di storie da difendere e da comprendere. Si narra la vita della camicia bianca, il suo candore da presentare con orgoglio, si narra la forza del combattere per difendere le proprie idee e di un presente dove tutti, pare, hanno perduto la voglia di esserci, di lottare, di provare a cambiare “il sistema paese”: “Dormono in piedi, come i cavalli. Come i corazzieri, come i politici. Dormono tutti in piedi in questo mondo che gira lasciando tutto fermo. Solo la mia Presidente dorme sdraiata, ma non è colpa sua”. Il presidente addormentato è un condensato di passioni e di bellezze e raggiunge il suo apice quando il padre di Anita, il partigiano, il politico vero, il leader, si affaccia dalla finestra dove altre volte aveva festeggiato le vittorie del suo partito. Si affaccia dentro quella piazza di una Roma perduta, abbandonata, derisa, blasfema e con il coraggio che solo i veri leader dimostrano di avere arringa la folla dicendo: “Ho sbagliato, sono colpevole più di altri e me ne vado, perché la vittoria e la sconfitta si devono accompagnare alla dignità. Me ne vado perché la camicia di mio padre, strappata, usurata, tenuta su dalla forza di volontà, rimanga sempre ai vostri occhi bianca, pulita, come io l’ho portata. Me ne vado per sempre da questo balcone, da questo palazzo, da questi palazzi. Ma voi non andatevene dalla strada e dalla piazza, fate sentire forte la vostra voce. Per farlo non c’è bisogno di urlare, c’è bisogno di fare. E se non si può fare qui, sotto questa bandiera, fatelo altrove, ve lo dice il senso del dovere: ci sarà sempre un modo di lottare per la democrazia, per la libertà”.Caria ci consegna un libro importante, vero, politicamente intenso e crudo. Ci trasporta e ci accompagna nelle contraddizioni di un potere inetto, incapace di programmare il futuro. Sono periodi dove nessuno ci racconta cosa vuole fare nei prossimi dieci anni. Solo qualche ragazzina ha compreso l’importanza delle scelte e ha compreso che occorre trovare il modo di lottare per la sopravvivenza di questo pianeta, per contrapporre le scelte egoistiche e limitative a quelle delle opportunità per tutti. Leggendo il libro ci si rende conto quanto sia importante la dignità dei gesti, quanto sia necessario osservare oltre l’orizzonte, ma non come il buon Drogo che dalla sua fortezza guardava un nemico che mai sarebbe arrivato, piuttosto come il corazziere che da gregario invisibile del gruppo potrà restituire dignità alla politica e al futuro di un paese impantanato, infagottato, incapace di restituire progettualità.
Nato a Oristano. padre gallurese, madre loguderse, ha vissuto ad Alghero, sposato a Castelsardo e vive a Cagliari. Praticamente un sardo DOC. Scrive romanzi, canta, legge, pittura, pasticcia e ascolta. Per colpa del suo mestiere scommette sugli ultimi (detenuti, soprattutto) e qualche volta ci azzecca. Continua a costruire grandi progetti che non si concretizzano perché quando arriva davanti al mare si ferma. Per osservarlo ed amarlo.
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