Se amiamo i bambini non possiamo permetterci di farli vivere dietro le sbarre per colpe che non sono loro. E se amiamo i bambini dobbiamo comprendere anche i passaggi complessi delle loro madri, le loro vite tortuose, difficili, vissute nelle periferie delle scelte, nella solitudine degli affetti, nell’assoluto cinismo di una società che a parole dice di amare la famiglia ma che, nei fatti, non si pone neppure il problema delle detenute madri con figli minori di tre anni e che sono costretti a stare in carcere. Esistono delle possibilità, certo: ci sono delle comunità protette che sono in grado di accogliere le mamme in attesa di giudizio o condannate per pene lievi e ci sono anche gli ICAM (istituti a custodia attenuata per madri detenute) gestiti direttamente dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria.
La storia della ragazza che partorisce da sola, nel carcere di Rebibbia, assistita soltanto dalla sua compagna di cella, non contribuisce a fare del nostro paese un paladino dei diritti delle donne e dei minori. Il punto però non è da imputare al carcere che, nella maggior parte dei casi, svolge in maniera dignitosa il suo dovere ma alle scelte che un giudice, nella sua piena e completa autonomia, deve effettuare quando si trova davanti ad una persona imputata di delitto. Amra, una ragazza rom di 23 anni e già madre di tre bambini, è stata “beccata” in fragranza di reato: aveva appena sottratto un portafoglio su un tram della capitale. Il bottino era di circa 40 euro. Trafila classica per Amra, che oltre a essere inviata quotidianamente a caritare sottrae maldestramente i portafogli dei frequentatori di bus. Reato riprovevole, è ovvio, e la fragranza ne comporta l’arresto. Sulla detenzione non ci sono dubbi. A questo punto però ci si trova davanti ad un bivio previsto dalle leggi: l’articolo 285 bis del codice di procedura penale prevede la possibilità di disporre la custodia cautelare della donna incinta e della madre di prole di età non superiore a sei anni in un I.C.A.M. oppure, se il giudice decide per gli arresti domiciliari, l’articolo 284 del codice di procedura penale permette che l’esecuzione degli arresti possa avvenire in una casa famiglia protetta. Nel primo caso la gestione è comunque detentiva, affidata alla polizia e agli operatori del trattamento (educatori, assistenti sociali e psicologi) garantisce la sicurezza e non vi è la possibilità di fuga. Si trattava soltanto di destinare Amra non al carcere di Rebibbia ma in un piccolo Istituto esclusivo per madri detenute. Non è stato deciso in tal senso anzi, il giudice Rossi ha rigettato la richiesta di arresti domiciliari in quanto per la ragazza (con un lungo certificato penale) c’era il rischio che tornasse a reiterare il reato, nonostante fosse incinta. Tutto è precipitato: il 18 agosto Amra sta male, viene accompagnata all’ospedale per un’emorragia, ritorna in carcere e il primo settembre partorisce nella cella, aiutata soltanto dalla sua amica prossima madre: “Sono stata brava” ha dichiarato Amra. Forse ha ragione e, almeno per una volta, nella lista dei cattivi ci siamo finiti noi, quelli che dovremmo garantire dignità e attenzione per casi come questo. La grande sensibilità della Ministra Cartabia ha fatto accendere i riflettori su questa storia e le ha fatto dichiarare che “dobbiamo portare tutte le detenute madri fuori dal carcere”. E’ una battaglia civile, di dignità. Quella battaglia ha prodotto una legge, la numero 62 del 21 aprile 2011 e dopo dieci anni si è costretti a ribadire un concetto che pareva semplice e condiviso da tutti: i bambini in carcere non ci possono e non ci devono stare, così come le madri in stato di gravidanza. Per Amra doveva essere disposta la misura della custodia cautelare ma non era necessariamente il carcere: poteva benissimo essere inserita in un Istituto a custodia attenuata per detenute madri. Era tutto così semplice, previsto dalle leggi e non è accaduto. Forse non siamo stati bravi. Riproviamoci con la dignità, ne abbiamo bisogno.
Nato a Oristano. padre gallurese, madre loguderse, ha vissuto ad Alghero, sposato a Castelsardo e vive a Cagliari. Praticamente un sardo DOC. Scrive romanzi, canta, legge, pittura, pasticcia e ascolta. Per colpa del suo mestiere scommette sugli ultimi (detenuti, soprattutto) e qualche volta ci azzecca. Continua a costruire grandi progetti che non si concretizzano perché quando arriva davanti al mare si ferma. Per osservarlo ed amarlo.
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