Qualche settimana fa le cronache si sono occupate del caso di una bambina down che il tribunale competente ha affidato in adozione ad un uomo celibe di Napoli, poiché nessuna delle sette famiglie cui era stata di volta in volta assegnata l’aveva voluta. Non ho voglia di indugiare in moralismi su quelle sette famiglie che hanno rifiutato un’adozione, poiché mi rendo conto che il complesso confronto con la disabilità possa essere un impegno insostenibile per chi lo teme, non conoscendolo abbastanza. Non voglio neppure ribadire considerazione ovvie, ma non per questo meno fondate, sul luogo comune secondo cui si possa essere genitori solo nell’ambito della cosiddetta famiglia normale composta da marito e moglie: il caso specifico smonta ancora una volta questo pregiudizio, dal momento che quel che serve per tirare su un bambino sono principalmente l’amore e la voglia di occuparsene. No, voglio dire altro. Da ventotto anni condivido una parte del mio tempo con Sebastiano, il mio cognato down. Sebastiano se avesse potuto avrebbe scelto per sé una sorte diversa, dunque a qualcuno la mia prossima constatazione potrà sembrare mostruosamente egoistica, ma aver trascorso tanto tempo con lui è stata per me una formidabile opportunità di crescita personale. Mi ha imposto tante domande sulla diversità, sul dovere di stabilire un dialogo con chi ci appare diverso e ha codici di comunicazione differenti dai nostri, mi ha costretto a rivedere il concetto di normalità. Tutti temi oggi attualissimi, nelle varie declinazioni possibili di diversità, attualissimi perché le semplificazioni e il crescente fastidio verso il confronto generano intolleranza, uno dei mali del nostro tempo. Credo che tutti quelli che hanno vissuto la stessa esperienza siano giunti alla stessa conclusione: accanto ad una persona comunemente considerata diversa si matura, si cresce. Per noi della famiglia, il problema della normalità di Sebastiano non si pone più da non so neppure quanto: superato dalla conoscenza, dalla quotidianità, dalla consapevolezza che è quasi impalpabile il diaframma tra ciò che consideriamo normale e ciò che non lo sarebbe. Surclassato dai piccoli progressi e dalla conquista di un sempre maggiore grado di autonomia, come vederlo montare in piedi su una sedia per prendere qualcosa sopra un armadio, vincendo la paura del vuoto. Oppure assistere alla sua commozione per l’interpretazione particolarmente intensa di una canzone, lacrime che rivelano una vita piena di sentimenti e di sensibilità. Credo che tutto questo le sette famiglie che hanno rifiutato l’adozione di una bambina down lo ignorassero. Non si negoziano scelte così delicate e personali come l’adozione di un figlio. Ma un maggiore grado di conoscenza genera, secondo me, maggiore umanità e schiude orizzonti più ampi. In fondo, è il problema generale del nostro tempo.
Nato nel 1971 ad Arzachena ed ivi smisuratamente ingrassato negli anni seguenti, figlio di camionista e casalinga. Titoli appesi alle pareti: laurea in Lettere moderne all'Università di Sassari, iscrizione all'albo dei giornalisti professionisti, guida nazionale di mountain bike, presidente della Asd Smeraldabike, direttore della testata Sardegnablogger. È stato redattore di tre diversi quotidiani sardi: dal primo è stato licenziato, gli altri due sono falliti. Nel novembre del 2014 è uscito il suo primo romanzo, "Cosa conta".
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