Ho visto almeno due volte la morte della politica, in questi ultimi mesi. La prima volta l’ho vista quando Donald Trump ha promesso di alzare un muro al confine col Messico, perché nessuno di questi selvaggi col sombrero possa insozzare col suo ingresso l’ordine, la sicurezza e la civiltà che regnano negli Stati Uniti. La seconda volta è stato quando ho sentito una delle ragioni che spingono un vasto movimento d’opinione a chiedere che la candidatura di Roma alle Olimpiadi sia ritirata: il pericolo che la mafia possa mettere le mani sugli appalti. Parto da questo secondo punto, anche per una questione di prossimità geografica.
Ci sono tante buone ragioni per rifiutare le Olimpiadi. Anzitutto l’esorbitante costo delle infrastrutture da sostenere in tempi di casse vuote, uno sforzo che si può legittimamente ritenere superfluo, non in cima alle priorità. Questa è politica. Non è politica, è anzi la morte della politica, rifiutare le Olimpiadi per il timore che la piovra degli appalti allunghi i suoi tentacoli sulle opere pubbliche. Se un’amministrazione non è in grado di impedirlo, non è neppure in grado di governare. Starsene tappati in casa perché qualche malintenzionato potrebbe scipparti, là fuori, significa rinunciare alla vita, lasciarsela dettare dalle proprie paure, più che dal pericolo reale. Questa è la morte di un uomo. Ed è la morte della politica quando ragiona allo stesso modo, quando rinuncia a sognare per il timore che nel sogno possa apparire qualche mostro. Le Olimpiadi sono uno straordinario momento di fratellanza, l’occasione di guardarsi negli occhi e stringersi la mano per atleti divisi da barriere d’odio, più che territoriali. È il momento in cui sportivi di nazioni dimenticate o mai conosciute possono aspirare e raggiungere la gloria. Le Olimpiadi sono l’etiope Abebe Bikila che proprio a Roma, nel 1960, vince la maratona correndo scalzo, armato solo del proprio straordinario talento. Le Olimpiadi sono Jesse Owens che umilia Hitler in Germania. Dovremo rinunciare a queste favole perché Mafia capitale potrebbe fare la cresta? Dovremmo rinunciare ad ogni opera pubblica, se questo fosse il principio.
Tornando a Trump, il mio amico Giancarlo dice che non lo abbiamo capito, che ci limitiamo a sfotterlo per il parrucchino senza indagare il suo profondo orgoglio americano, propulsore di certe sue eccentriche proposte. Io mi chiedo cosa vi sia di politico in un muro da alzare al confine col Messico, se questa possa essere considerata una risposta o, piuttosto, il rozzo ripiego di chi risposte non ne ha ma rassicura l’America promettendo maniere forti, senza sapere davvero con chi usarle. In un muro c’è la morte della politica, non la politica. E sapere che Trump è in testa ai sondaggi chiarisce che la politica sta morendo. Non per colpa di Trump, ma di chi nei suoi muri vede il programma di uno statista.
Nato nel 1971 ad Arzachena ed ivi smisuratamente ingrassato negli anni seguenti, figlio di camionista e casalinga. Titoli appesi alle pareti: laurea in Lettere moderne all'Università di Sassari, iscrizione all'albo dei giornalisti professionisti, guida nazionale di mountain bike, presidente della Asd Smeraldabike, direttore della testata Sardegnablogger. È stato redattore di tre diversi quotidiani sardi: dal primo è stato licenziato, gli altri due sono falliti. Nel novembre del 2014 è uscito il suo primo e-book "Cosa conta".
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