Ieri io e il mio amico Francesco abbiamo camminato per 48 chilometri andando di campagna in campagna. Siamo partiti all’alba dalle nostre case con una zaino sulle spalle e siamo arrivati all’eremo di San Paolo di Monti dopo undici ore di cammino. I dati finali del Garmin certificano che abbiamo scalato 1200 metri di montagna. Questo viaggio pedestre non aveva alcuna ragione particolare e ne aveva tante generali. Tra queste c’è la misura del tempo e la sua relatività nello scorrere delle epoche. Capire quanta vita dell’uomo di una volta dovesse essere investita in lunghi spostamenti a piedi. Capirlo dal friggere delle vesciche ai piedi e, per quanto mi riguarda, dall’agonia degli ultimi dieci chilometri, per i quali mi sono trascinato con le gambe irrigidite dalla fatica e gli occhi rivolti alla terra sotto di me: mai alla strada che mi attendeva. Certe volte distogliere lo sguardo dall’orizzonte è la prima salvezza. Lo scorso anno ho pedalato per settemila chilometri e quest’anno ne ho corsi quasi seicento, ma camminare in salita è tutta un’altra storia: anche la lentezza va educata. Certo, a Santu Paulu ci si andava per ringraziarlo per qualche grazia ricevuta, in fondo mettersi in marcia per l’eremo era una libera scelta di quanti gli erano devoti. Non era invece una libera scelta dei miei compaesani, quando Arzachena era solo una frazione senza autonomia amministrativa, l’incamminarsi verso la lontana Tempio Pausania per richiedere qualche carta in Comune, esponendosi alle imboscate di banditi e agli umori del tempo.. Andare di campagna in campagna è passare in mezzo ai luoghi dove l’asfalto non è arrivato e la gente ha scelto di vivere ai margini del nevrotico mondo urbano. Carrabinu, stazzu Caddagghju, Muddizza Piana, Monti a Telti, Micaleddu, Enas. Bisogna avere un eroico senso dell’identità per continuare a vivere in posti come questi. O forse solo le idee molto chiare. Luoghi dimenticati da tutti, di cui tutti si ricordano quando bisogna liberarsi dei rifiuti. Altra cosa che ho imparato: le nostre campagne sono delle indegne discariche. Oltrepassata la vetta di Muddizza Piana, dopo una ventina di km di cammino siamo calati nella piana di Olbia, ai piedi di Monti Pinu. A quel punto la rotta tracciata sul Gps ci intimava di infilarci in via Del Nuraghe per deviare in direzione Enas, lontana una decina di chilometri. Via del Nuraghe è una specie di mulattiera che solo con molta generosità può essersi guadagnata il titolo di “via”. Congiunge la provinciale 38 con la Olbia-Telti. Tra i tanti resti di produzione industriale abbandonati a marcire, all’ombra di una pala eolica ricordo un furgone imbottito di spazzatura assortita e una berlina anni ottanta infilata dentro un cespuglio, da cui la coda dell’auto visibilmente spunta. Possibile che nessuno passi mai di qui, che nessuno veda e reclami dignità per questi posti, magari anche per onorare la storia evocata dalla toponomastica? Mentre camminavo in via Del Nuraghe, ho sogghignato nel pensare che a qualche chilometro di distanza l’amministrazione comunale progetta di erigere una grande ruota panoramica per il sollazzo dei turisti. Ma torniamo al nostro viaggio fisico e temporale. Dopo Enas abbiamo scavalcato la quattro corsie per sfidare la montagna. Secondo i nostri calcoli, mancavano una decina di chilometri. Ci siamo fermati un momento a riposare, sul ponte sopra il riu Parasole. Francesco si è levato le scarpe per controllare le sue vesciche. Io ho scoperto quanto possa essere doloroso il semplice movimento del sedersi e risollevarsi in piedi dopo trentacinque chilometri di marcia. Entravamo, consapevoli, nel tratto più impegnativo della camminata. Consapevoli, perché due settimane prima avevamo raggiunto Santu Paulu in mountain bike. La strada sale, scende, sale di nuovo e s’incunea tra i crinali. Vedi solo macchia verde, rocca, terra e cielo e si è permeati dal silenzio, infranto solo dal frastuono degli aerei appena decollati da Olbia che viaggiano sopra le nostre teste. Mentre m’arrampico penso ai passeggeri dentro quei jet. Tra due ore saranno a Londra, Bratislava o alla eloquente Atene. Io, ma non ne sono così sicuro, sarò all’Eremo, ad un palmo di naso da me. Affrontiamo i problemi dei viaggiatori di un tempo dopo tre chilometri di sentiero, perché dobbiamo attraversare il rio Parasole, il cui corso tortuoso accompagna e spesso incrocia la nostra traiettoria. Dove strada e fiume si sovrappongono, ci sarebbe un ponte. Ma è solo un curioso monolite di cemento senza senso, spezzato alle estremità e perciò non cavalcabile, buttato in mezzo alla campagna chissà come. Lo considero uno dei tanti rifiuti incontrati durante la giornata. Zompiamo sui ciottoli che spuntano dall’acqua e guadiamo senza bagnarci. Francesco si leva ancora le scarpe e con aghi di ginestre perfora le sue vesciche. È un maratoneta, non teme le sofferenze. A questo punto, sono davvero allo stremo delle forze: non per la fatica, ma per il dolore alle gambe. Il mio compagno di viaggio, cercando di non farmelo pesare, mi pone di fronte ad un’opzione. Possiamo proseguire lungo il sentiero che conosciamo, una ripida mulattiera che poi spunta sulla strada asfaltata, ad un chilometro dall’eremo ad una quota di un centinaio di metri più elevata; oppure ricongiungerci al cammino dei pellegrini, girando attorno alla montagna. Quest’ultimo tratto è più lungo ma pare abbia altimetrie meno dolorose. Scelgo la busta numero due e vado avanti. Giriamo attorno ad un vigneto e attraversiamo il fiume per una seconda volta e una terza volta. Stavolta m’inzuppo le scarpe ma non me frega un cazzo, non me ne frega nulla del mondo, di Salvini, dell’ordine del giorno del Consiglio di classe, delle mie prospettive esistenziali, della new age italiana e del free jazz punk inglese. Voglio solo che questa sofferenza finisca il prima possibile. Non ho sete, non ho fame, ma sento freddo, anche se freddo non fa per nulla. Google maps mi dice che mancano quattro chilometri al traguardo. Pochi, vero? Invece nel mio stato sono un’eternità. Chi me l’ha fatto fare di cacciarmi in questo guaio? Siamo in ritardo già di un’ora rispetto all’orario di arrivo previsto e non posso più comunicare col mondo, perché per tutto questo tratto i cellulari non funzionano. Francesco propone che io mi fermi, lui darà fondo alle forze residue per allungare il passo e arrivare alla chiesa. Lì l’amico Serafino Berlini ci attende, ma da un’ora non ha notizie di noi e lo immaginiamo preoccupato. Qualche ora dopo, mi dirà che stava per chiamare i soccorsi. Però io non mi fermo. Non so come, ma continuo a salire. A testa bassa, ma continuo a salire. Ho la postura di uno con le ragadi anali, ma un passo dopo l’altro mi trascino avanti. Aerei continuano a sorvolarmi la testa e io mi sento molto solo e pieno di sconforto. Sono tutto uno sconforto. Penso per un momento di buttarmi a terra e aspettare che qualcuno venga a prendermi, m’immagino già il turbinio dell’elicottero del soccorso sopra la mia testa. Invece proseguo, ogni passo una conquista. Agli aerei ora spedisco silenziose maledizioni e mi capacito di come si possa diventare pateticamente cattivi nella sofferenza. A un chilometro e mezzo dall’eremo, sento una voce in alto, in cima all’ennesima salita di queste montagne russe. È Francesco. Il suo cuore da atleta gli ha permesso di arrivare di corsa all’eremo, rassicurare Serafino e tornare indietro per capire se mi fossi arreso alla fatica. Dopo cinquecento metri ecco Serafino. Aveva provato a risalire la strada col furgone per venirmi a prendere, ma le condizioni della mulattiera non glielo hanno permesso. Mi butta le braccia al collo, in lacrime. Era molto più che preoccupato. Cado stravolto sul furgone, mi mettono in pugno una cocacola ma non ho le forze per scolarmela d’un fiato. Non ho la minima intenzione di entrare in chiesa, invece Francesco entra da devoto. Si può condividere un viaggio nella diversità. Non entro in chiesa, ma non posso esimermi dal pensare che, fossi stato un pellegrino di un secolo fa, in quella chiesa avrei trovato una porta aperta e riparo per la notte. La sera, a casa, mi assalgono i brividi di freddo. Resto mezz’ora sotto la doccia bollente per tornare in me. Al pellegrino di un secolo fa questo confort non sarebbe stato concesso. Poi vado a mangiare alla pizzeria da Serafino, l’amico che è venuto a prendermi. Per la prima volta nella mia vita lascio nel piatto metà della pizza, la fatica ha avuto ragione del mio vorace appetito. Subito dopo essere precipitato sul sedile del furgone, avevo detto che “questa follia, mai più”. Invece adesso mi scorrono davanti le immagini della giornata e penso che dopo la sofferenza viene sempre la bellezza. Il dolore alle gambe mi ricorderà per qualche giorno questa follia. Ma ora sono felice di poterla raccontare. Nel viaggio trovi in giro un sacco di spazzatura, ma devi sempre trovare la forza per andare avanti. A volte basta solo avanzare a testa bassa, senza alzare troppo lo sguardo all’orizzonte. Poi, quando arrivi, ti restano solo la bellezza e la risposta alla solita domanda. “Qual è lo scopo del viaggio?” “Il viaggio”.
Nato nel 1971 ad Arzachena ed ivi smisuratamente ingrassato negli anni seguenti, figlio di camionista e casalinga. Titoli appesi alle pareti: laurea in Lettere moderne all'Università di Sassari, iscrizione all'albo dei giornalisti professionisti, guida nazionale di mountain bike, presidente della Asd Smeraldabike, direttore della testata Sardegnablogger. È stato redattore di tre diversi quotidiani sardi: dal primo è stato licenziato, gli altri due sono falliti. Nel novembre del 2014 è uscito il suo primo romanzo, "Cosa conta".
Renatino e i misteri di Roma (di Giampaolo Cassitta)
Elio e le storie disattese (di Francesco Giorgioni)
The show must go on (di Cosimo Filigheddu)
Vincerà Mengoni. Però… (di Giampaolo Cassitta)
Ero Giorgia, e ricanto. (di Giampaolo Cassitta)
Piacere, Madame. (di Giampaolo Cassitta)
Se son fiori spariranno (di Giampaolo Cassitta)
Ma Sanremo è Sanremo? (di Giampaolo Cassitta)
Pacifisti e pacifinti (di Simone Floris)
Lo specchietto (di Salvatore Basile)
Da San Gavino a San Cristoforo, quando colonizzammo il Villaggio Verde. Ovvero il trasloco (di Sergio Carta)
Se riesco a buscare 5000 Lire ci vediamo allo Zoom, ovvero le pomeridiane in discoteca degli anni’80. (di Sergio Carta)
Papa Fazio (di Cosimo Filigheddu)
Inserisci il tuo indirizzo e-mail per iscriverti a questo blog, e ricevere via e-mail le notifiche di nuovi post.
Unisciti a 18.012 altri iscritti
Indirizzo e-mail
Iscriviti
sardegnablogger ©2014 created by XabyArt - graphic & web design