Da settembre non vedo più Mediaset. A casa non mi funziona il digitale terrestre, non so perché e non mi interessa saperlo, dunque ricevo solo canali satellitari sulla piattaforma Sky (credo si dica così). In realtà, i canali Mediaset non li guardavo più da anni, non per scelta ideologica ma per puro disinteresse. Però, volendo, potevo. Adesso non più. La prima volta che conobbi i canali commerciali ero alle medie. Babbo aveva comprato la televisione nuova e il tecnico, orientata l’antenna verso il Limbara, ci aprì un mondo sconosciuto: fino ad allora, la scelta era tra primo e secondo canale, tra il Tg di Massimo Valentini e quello di Mario Pastore. Di questo mondo nuovo ne parlai, entusiasta, al compagno di banco. Essendo lui di famiglia benestante, sopportò con sufficienza: Canale 5, Italia 1 e Rete4 li conosceva da tempo e mi prese per il culo per essermi aggiornato così tardivamente. Poi quella televisione entrò nella mia vita, come nella vita di tutti gli italiani. Nei pranzi da mia zia, polpette e patate fritte dopo la scuola, la tv accesa su Il Pranzo è servito, condotto da Corrado. Il sabato pomeriggio, Record con Rino Tommasi, che aveva una statistica per ogni incontro di pugilato e ogni partita di tennis, calcio, tamburello. La domenica mattina, Grand Prix con Andrea De Adamich e, in dissolvenza nella sigla, gli occhi chiari di Licia Colò. La domenica sera, i glutei scoperti di Tinì Cansino a Drive In e tutto un ribollire di non sapevo che dentro di me. Tinì Cansino era un segno ben calcato di quel linguaggio: la donna provocante e svampita, abbastanza da poter essere accessibile a tutti. (In una intercettazione telefonica di quegli anni, parlottando tra loro, Berlusconi e Dell’Utri ammisero che le ballerine del Drive In erano l’ultima spiaggia di certe serate sfortunate). All’università, l’annuncio dei bombardamenti nel Golfo Persico dato con un filo di bava alla bocca da Emilio Fede, allora a Studio Aperto (un minuto dopo, fuori onda, Fede proruppe in un apprezzamento sguaiato sulle cosce della conduttrice Key Rush). Sgarbi che lancia l’acqua a D’Agostino, ricevendone in cambio uno schiaffone. Paciere, pensate un po’, Giuliano Ferrara. Il Tg di Mentana, che tra un servizio e l’altro sparava centinaia di parole di cui io riuscivo a capirne forse un terzo. L’orgiastico delirio del possesso in OK! Il prezzo è giusto, con la matrona Iva Zanicchi a dirigere il traffico ed il pubblico addomesticato per gli applausi a comando. Fu in quel tempo che divennero status symbol la bici con il cambio Shimano e il tostapane col timer, presentate ai telespettatori dalla brasiliana Ana Laura Ribas. La Ribas la vedevo spesso, quando facevo il guardiano a Porto Cervo: era molto bella, ma non riuscivo a disgiungere la sua immagine dal cambio Shimano o dal tostapane elettrico. Per me lei doveva vivere in simbiosi con quegli oggetti.
Ad una lezione di letteratura italiana, anno 1992, il professore Nicola Tanda ammise di non perdere una puntata di Beautiful. Ci chiese perché, secondo noi, la gente fosse tanto attratta dalle soap opera. Ognuno disse la sua, lui compreso: “Perché non devi impegnarti a seguire la trama, puoi averla sotto controllo anche se ti addormenti o ne perdi un’intera settimana”.
Iniziai a capire di più quando censurarono Matrioska di Antonio Ricci: erano gli anni ottanta e un mostro verde vomitò una melassa orribile di marchi, affronto inaccettabile per una televisione commerciale. La presa di coscienza proseguì coi moccoli accesi nella redazione del Tg4 dal summenzionato Fede, nella speranza che il primo governo Berlusconi reggesse alla mozione di sfiducia. Digerimmo anche le ragazzine di Non è la Rai, scrollando le spalle quando Piero Chiambretti dimostrò come Gianni Boncompagni telecomandasse Ambra Angiolini, dettandole ogni parola pronunciata. Detestavo e detesto “Striscia la notizia”, molestie spacciate per giornalismo e scoop spesso rubati ad oscure cronache di provincia. Venne, infine, “L’Italia è il paese che amo”. Ripensandoci ora, rovistando con cura nella memoria, non ricordo di aver mai visto nulla che mi abbia davvero appassionato, sui canali Fininvest/Mediaset. Però te la vendevano come una scelta di libertà, perché non dovevi pagare l’odioso canone Rai.
L’altra sera, a casa di parenti, lo schermo è passato in pochi istanti dal Tg5 a Rete4. Alla fine del Tg5, la faccia sofferente di Alessandro Sallusti promuoveva i fascicoli sul fascismo in allegato al Giornale. Perché bisogna tornarci, sul fascismo: ci avrà anche portato alle leggi razziali, alla guerra al fianco del nazismo, al confino degli oppositori, alla carcerazione fino alla morte di Antonio Gramsci, ai campi di concentramento contro i ribelli africani ma, in fondo, l’editore ha detto che “ha fatto anche cose buone”. Quando il telecomando ha premuto sul quattro, ho visto Paolo Del Debbio (uno dei fondatori di Forza Italia) dare la parola ad una signora bionda, in non so quale piazza italiana. Aveva i nervi del collo tirati da far paura e raccontava di essere “costretta a far passare mio figlio qua davanti, quando lo porto a scuola”. “Qua davanti” significava davanti ad un campo di profughi, appena arrivati dall’Africa. Non voleva che suo figlio vedesse quello spettacolo di povertà.
Si può vivere anche senza i canali Mediaset.
Nato nel 1971 ad Arzachena ed ivi smisuratamente ingrassato negli anni seguenti, figlio di camionista e casalinga. Titoli appesi alle pareti: laurea in Lettere moderne all'Università di Sassari, iscrizione all'albo dei giornalisti professionisti, guida nazionale di mountain bike, presidente della Asd Smeraldabike, direttore della testata Sardegnablogger. È stato redattore di tre diversi quotidiani sardi: dal primo è stato licenziato, gli altri due sono falliti. Nel novembre del 2014 è uscito il suo primo romanzo, "Cosa conta".
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