Io penso che la mia maestra alla sindaca di Lodi qualche cosa gliela direbbe. La mia maestra si chiamava Libera. Io non so se i genitori l’avessero chiamata così per via del culto mariano o perché erano di sinistra, comunque lei secondo me era convinta che gli italiani fossero in peccato mortale perché avevano mandato via il Re. E non re, ma proprio Re. La mia maestra mi ha insegnato l’Italiano che se lo sapessi ora come lo sapevo allora, adesso sarei uno che sa scrivere. Però sulla questione delle maiuscole era un po’ così. Sulle maiuscole di rispetto, voglio dire. Anche “direttore” (specialmente quello della scuola di San Giuseppe) andava scritto con la maiuscola, pure se era un nome comune. La mia maestra prima di cominciare la lezione ci faceva mettere in piedi per dire la preghiera. La mia maestra quando avevo quattordici anni ed era estate ed erano le vacanze tra la quarta ginnasio e la quinta ginnasio è passata ai giardini pubblici per tornare a casa sua in via Coppino e mi ha visto seduto su una panchina con una ragazzina alla quale stavo spiegando che io ero un uomo forte e indipendente e che non temevo niente e nessuno. Si è avvicinata e io sono scattato in piedi come quando lei entrava in classe, lei mi ha salutato e senza salutarla ha dato un’occhiataccia alla ragazzina perché una ragazza, così, seduta con un ragazzo alle 5 del pomeriggio ai Giardini non è che vada bene. E mi ha detto -Salutami mamma e babbo. Ah… e sei stato promosso, ovviamente. Non era una domanda. -No, mi hanno lasciato il Greco. Allora lei ha stretto le labbra e mi ha allungato uno schiaffo. Quando ero suo alunno non aveva mai messo le mani addosso né a me né a nessuno. Ma quel mio sorrisino di noncuranza (rivolto alla ragazzina, non alla maestra) la deve proprio avere fatta uscire dai gangheri. Anche io, del resto, a rivedermi con quella faccia da scemo per dire che del Greco non me ne fregava niente, adesso mi prendo a schiaffi. Ecco, questa era la mia maestra. Che da adulto, quando ho letto sul giornale che era morta, non dico che mi sono messo a piangere come quando è morta mia madre, ma , insomma, quasi. Le volevo molto bene, anche se il mio re e il mio direttore hanno sempre avuto la r minuscola, anche se non prego, anche se per tutta la vita, persino ora che sono vecchio, mi hanno sempre lasciato qualche materia a settembre. Però c’è un fatto. Alle elementari di San Giuseppe c’era una cosa che si chiamava refettorio ed era una mensa dove a pranzo andavano i bambini poveri che se tornavano a casa senza mangiare, o non mangiavano o mangiavano poco. Solo i poveri: I ricchi (tale ero considerato io secondo i criteri dell’epoca, ma se vedevate come campava una famiglia di sei persone con uno stipendio da medico condotto vi mettevate a ridere) tornavano a mangiare a casa. Funzionava che alla campanella del finis in ogni classe si formavano due gruppi: i ricchi che andavano verso l’uscita e i poveri che separati dai ricchi andavano verso il refettorio, che a San Giuseppe era dalla parte opposta all’uscita. Io alla miseria c’ero abituato perché abitavo in piazza del Comune e nella mia greffa c’erano due Antonio. Per distinguerli li chiamavamo Antonio il Ricco e Antonio il Povero. Antonio il Ricco era il figlio del ciabattino di via Canopolo, che aveva una bottega di due metri per tre. Figurati Antonio il Povero. Quindi a me le file degli scolari poveri che ogni mattina andavano al refettorio sotto gli occhi di tutti e tutti dicevano poverini quelli sono i bambini poveri, non mi facevano né caldo né freddo. Però nella mia classe questa fila non c’era. Quando suonava la campanella, la mia maestra finiva di fare o di dire quello che stava facendo o dicendo senza che noi neppure ci muovessimo. Poi ci faceva cenno che potevamo metterci in piedi e ci avviavamo al corridoio dove ci mettevamo in fila per due, ricchi e poveri insieme. Poi, noi soli in tutta la scuola, il piccolo esercito della maestra Libera, marciavamo ordinati sino all’uscita di via Enrico Costa e lì ci disperdevamo. Noi ricchi, ci disperdevamo. Perché la mia maestra ci precedeva all’uscita. Muta, rigida, lì ogni santo giorno, nella confusione sotto il grande arco con la scritta SCUOLA, che guardava tutti e pareva che guardasse nessuno. E i bambini poveri le si radunavano intorno senza darlo a vedere e la mia maestra, discreta e altera come Diana nella foresta, li accompagnava al refettorio. Capito Libera che cosa ci insegnava oltre a re con la r maiuscola? Capito perché le voglio bene? Io penso che la mia maestra se trova ai Giardini la sindaca di Lodi seduta su una panchina e quella le dice che cosa ha fatto, boh, non lo so che cosa le fa, la mia maestra.
Nato nel 1951, ottobre (bilancia, ma come tutti quelli della bilancia non crede nell'oroscopo). Giornalista dal 1973. Scrive anche altra roba. Ma gratis, quindi non vale.
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