L’avevo già affermato che il basket è come la vita e in un paese dove si parla soprattutto di calcio può risultare blasfemo. Anche il calcio è la metafora della vita, certo, ma con la visione da un crinale diverso. Bisogna intendersi: nel calcio si può (e qualche volta addirittura si deve) pareggiare: è la vita tranquilla, senza troppi intoppi, quella paciosa e serena: non prenderle e non darle. Nel basket questo non è pensabile. E’ addirittura impossibile la concezione stessa del pareggio: dal campo si esce vittoriosi o sconfitti. Anche per un punto. Sono quelle sconfitte che rischiano di segnarti per molto tempo e quelle vittorie che possono risultare effimere. Dipendono dal carattere di una squadra. In base a quei risultati si effettuano e si ottengono determinate risposte o accadono alcune cose piuttosto che altre. Nel calcio segnare è un fatto corale o personale. Ci vuole anche fortuna, a volte. Questo, a dire il vero, accade anche nel basket. Solo che non c’è nessuno a difendere la tua porta, la tua casa, il tuo canestro. Il calcio è, in fondo, la trasposizione di una scacchiera di guerra dove la porta (il fortino, il tesoro, la propria casa, la propria donna) devono essere difesi a tutti i costi. Ma non sei tu a farlo: ti affidi ad un altro (il portiere) che non utilizza i tuoi stessi mezzi, i piedi. Lui tenta di salvare il tutto con le mani. Nel basket ci si difende, è vero, ma la partita (e quindi la vita) è stratificata in maniera totalmente diversa: c’è una visione più allungata, seppure apparentemente più caotica. Non è importante raggiungere subito l’obiettivo, è necessario arrivarci dopo molti processi (canestri) e per concludere occorre riuscire a segnare un canestro più di un altro. Nel calcio conta l’estetica, il bel passaggio, il ragionamento, lo schema. Nel basket si predilige l’etica: si alza la mano quando si commette fallo e, solitamente, sia i giocatori che il pubblico mantengono un atteggiamento sicuramente più sportivo. Poi, in entrambe le discpline (imperfette, come è imperfetta la vita) c’è il tiro che non aspetti, il canestro rocambolesco, la schiacciata e il pallonetto. Sono episodi che riescono a farti abbracciare con il mondo. Almeno per un attimo. Però una cosa è certa: le partite si perdono, ma mai definitivamente. C’è sempre un momento per ripartire e riprovarci, con altre forze e con altre passioni. La vita è dunque un campo diviso a metà: un tempo si regala al calcio e l’altro alla pallacanestro. E quando finiscono queste partite rimangono momenti per poter scegliere un’altra strada: (nello sport, come nella vita) dal ciclismo, alla corsa, al salto in alto e a quello del giavellotto. Guardare alla conclusione del proprio crocevia e rendersi conto che la vita, in fondo, è solo un gioco. Dunque è una cosa maledettamente seria.
Nato a Oristano. padre gallurese, madre loguderse, ha vissuto ad Alghero, sposato a Castelsardo e vive a Cagliari. Praticamente un sardo DOC. Scrive romanzi, canta, legge, pittura, pasticcia e ascolta. Per colpa del suo mestiere scommette sugli ultimi (detenuti, soprattutto) e qualche volta ci azzecca. Continua a costruire grandi progetti che non si concretizzano perché quando arriva davanti al mare si ferma. Per osservarlo ed amarlo.
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