Vent’anni. Possono essere una vita. Quei giorni afosi, gonfi di lacrimogeni e sudore, sprangate, insulti, depistaggi, cattiverie, torture. Quei giorni di Genova che disegnano sulla pelle una ferita non rimarginata: come il caso Cucchi, come Santa Maria Capua Vetere, come quando lo Stato scende nella suburra dell’ignoto, nei vicoli osceni della vendetta e dimentica di aver firmato un patto con i propri cittadini: quello del rispetto della dignità umana. Quei giorni di Genova cominciati con i falsi frutti di limone – voluti dall’allora Premier Berlusconi – infiocchettati sulle piante dove i potenti della terra sarebbero transitati e finiti con l’uccisione di un ragazzo, la mattanza della Diaz e le torture a Bolzaneto e con altri falsi ben peggiori degli innocui limoni gialli: verbali, prove documentali, depistaggi. Quello Stato che nel 2017, per voce di Franco Gabrielli, nuovo capo della Polizia – intervistato da Carlo Bonini per Repubblica – affermò che non bastava chiedere solo scusa: “Lo dico chiaro, ci fu tortura. Tortura. E una caserma di polizia si trasformò in un garage Olimpo. Ed è falso, sottolineo falso, che nell’accertamento della verità giudiziaria sui fatti di Genova abbia influito una magistratura ideologizzata”. Lo sapevamo, lo sapevamo da sempre ma mancava il coraggio. Come è mancato per anni nel raccontare il calvario di Stefano Cucchi, dato in consegna ad uno stato che si rivelò il suo carnefice, attraverso propri rappresentanti indegni che costruirono prove false addirittura nei confronti di altri colleghi. Depistaggi, prove false, utilizzo della retorica più bieca, quella che serve per accarezzare la pancia oscena del paese: “sono dei comunisti che vogliono distruggere tutto”, “sono zecche, non hanno voglia di lavorare”, “era un tossicodipendente e quindi un delinquente”, “era solo una perquisizione”. Molti sapevano, tutti immaginavamo ma siamo rimasti senza parole, quasi basiti da quell’abnorme comportamento indegno di uno Stato di diritto. E’ stata la sospensione più grave accaduta in una democrazia occidentale dalla seconda guerra mondiale dissero in molti, soprattutto i media internazionali. In Italia c’è chi si vergognava (ed io ero tra quelli) e chi invece utilizzava e continua ad utilizzare quello che Massimo Giannini sulla Stampa, nel suo editoriale in ricordo dei fatti di Genova, definisce “benaltrismo”: c’è sempre altro cui pensare. Figuriamoci dopo vent’anni, con la variante delta, le ferie da organizzare, il green pass da richiedere, le feste per gli europei di calcio se c’è la voglia di ritornare a Genova, se c’è la voglia di riavvolgere quel nastro dove delle ragazze inermi venivano definite dai rappresentanti dello stato “puttane” “troie” e dove, a Bolzaneto, quelli che erano detenuti in attesa di giudizio (poi tutti, nessuno escluso, rilasciati in quanto non avevano commesso nessun reato se non quello di trovarsi a dormire nella scuola Diaz quella maledetta sera) venivano ingiuriati, presi a schiaffi, denudati, costretti a mettersi nudi e derisi, come nei peggiori film di stampo nazista. Ricordare Genova e riguardarsi quella ferita sul corpo della democrazia significa provare a comprendere l’assurdità dei gesti e determinarne la condanna. Non basta dire “Non succederà più” perché se il terreno non è concimato con una formazione seria e democratica la gramigna lo infesterà di nuovo. Ricordare Genova serve, paradossalmente, per renderci attenti e premurosi su ciò che può ancora ripresentarsi ai nostri occhi. E’ il modo di essere Stato, di una formazione democratica che non deve prevedere, mai, l’uso improprio della forza, è il concetto di Stato di diritto che dobbiamo portare avanti tra le forze di polizia: lo dobbiamo fare per noi e per tutti i rappresentanti delle forze dell’ordine (per fortuna la stragrande maggioranza) che garantiscono la sicurezza mantenendo l’ordine attraverso le norme di uno Stato di diritto. Sono le parole ad essere necessarie. Ed i gesti: ricordare significa esserci ed essere presenti con le condanne. Tutti, come Gabrielli, capo della polizia dobbiamo affermare con forza, con dignità, con fermezza: “ci fu tortura. Tortura”. Il G8 di Genova del 2001 è una ferita nell’anima della democrazia. Non ammetterlo è fare torto agli italiani, a tutti gli italiani, forze dell’ordine comprese.
Nato a Oristano. padre gallurese, madre loguderse, ha vissuto ad Alghero, sposato a Castelsardo e vive a Cagliari. Praticamente un sardo DOC. Scrive romanzi, canta, legge, pittura, pasticcia e ascolta. Per colpa del suo mestiere scommette sugli ultimi (detenuti, soprattutto) e qualche volta ci azzecca. Continua a costruire grandi progetti che non si concretizzano perché quando arriva davanti al mare si ferma. Per osservarlo ed amarlo.
Renatino e i misteri di Roma (di Giampaolo Cassitta)
Elio e le storie disattese (di Francesco Giorgioni)
The show must go on (di Cosimo Filigheddu)
Vincerà Mengoni. Però… (di Giampaolo Cassitta)
Ero Giorgia, e ricanto. (di Giampaolo Cassitta)
Piacere, Madame. (di Giampaolo Cassitta)
Se son fiori spariranno (di Giampaolo Cassitta)
Ma Sanremo è Sanremo? (di Giampaolo Cassitta)
Pacifisti e pacifinti (di Simone Floris)
Lo specchietto (di Salvatore Basile)
Da San Gavino a San Cristoforo, quando colonizzammo il Villaggio Verde. Ovvero il trasloco (di Sergio Carta)
Se riesco a buscare 5000 Lire ci vediamo allo Zoom, ovvero le pomeridiane in discoteca degli anni’80. (di Sergio Carta)
Papa Fazio (di Cosimo Filigheddu)
Inserisci il tuo indirizzo e-mail per iscriverti a questo blog, e ricevere via e-mail le notifiche di nuovi post.
Unisciti a 18.020 altri iscritti
Indirizzo e-mail
Iscriviti
sardegnablogger ©2014 created by XabyArt - graphic & web design