Quando Obama ha chiesto agli americani se si sarebbero sentiti tranquilli nell’affidare i codici nucleari ad uno che nel cuore della notte twittava a raffica contro la Clinton, lasciava intendere molto più di quanto le parole esplicitamente dicessero. L’impressione è che mettesse seriamente in dubbio l’integrità mentale di Trump, per sottolinearne l’inadeguatezza strutturale allo svolgimento del ruolo di uomo più potente del mondo. Ma, piaccia o no, quest’uomo sarà presidente degli Stati Uniti d’America e i suoi umori influiranno sulla vita di tutti noi. Io non sono un esperto di politica americana, ma mi limito a registrare alcuni dati di fatto col parametro della mia personale (ripeto: personale) concezione di civiltà.
Trump è uno che vuole alzare un muro per separare fisicamente gli Stati Uniti dal Messico e auspica la totale liberalizzazione delle armi, come fossero un qualunque articolo da scaffale di supermercato, Trump è uno che a più riprese ha espresso la sua avversione per i musulmani, ponendo persino in discussione la libertà di culto. Sono le pillole più conosciute della sua campagna elettorale, ma secondo gli analisti sono anche quelle che più hanno influenzato l’elettorato americano: non una nostra visione lontana e distorta, insomma. Trump è la più violenta espressione della nuova deriva della politica: maniere spicce, rimedi semplici e brutali, il prevalere della forza sul ragionamento e sul dialogo. Trump è il politico ideale per la gente che sente la minaccia del terrorismo nelle grandi città, ma anche per gli emarginati delle desolate periferie, messi col culo per terra dalla crisi, che il loro sogno americano non l’hanno mai potuto neppure accarezzare. In un mondo globalizzato, i meccanismi psicologici che determinano il Trump presidente non sono molto diversi, credo, da quelli che hanno catapultato sulla scena politica nostrana uno come Salvini, trasformandolo in breve in un leader di primo piano. Da uomo d’affari abituato a fiutare il mercato, Trump aveva capito molto più di tanti analisti che su quel fuoco doveva soffiare, per avere ragione della impalpabile Clinton (di cui non parlerò, perché non è lei che ha perso ma Trump che ha vinto). Per avere ragione della Clinton e della presa di distanze dello stesso partito repubblicano, che aveva per buona parte ripudiato il suo candidato, ritenendolo improponibile. Per avere ragione della Clinton e della presa di posizione di grandi star come Bruce Springsteen, Madonna e Robert De Niro, tutti terrorizzati dall’idea che Trump potesse raggiungere la Casa Bianca. A questo proposito, qualcuno dice che gli appelli di star milionarie possano avere sortito un effetto contrario: quelli con la pancia piena schierati contro la novità e dalla parte dell’establishment. Ma che interesse potevano avere, questi personaggi così affermati, ad esprimersi così nettamente (e talvolta sguaiatamente) contro l’uomo Trump, se non perché nella sua affermazione vedevano le più fosche prospettive per la civiltà americana?
L’America sarà anche la più grande democrazia del mondo, ma nessuna democrazia e nessuna maggioranza sono infallibili. Io resto dell’idea che Trump dica cose spregevoli, inaccettabili se pronunciate dal Presidente degli Stati Uniti. Ma la più grande democrazia del mondo è quella che fino a qualche anno fa non aveva il sistema sanitario per tutti e fino agli anni sessanta non permetteva ai neri di votare e aveva locali pubblici separati a seconda del colore della pelle degli utenti. Pochi giorni fa ho visto “All the way”, la biografia del presidente Lyndon Johnson resa in un film da Steven Spielberg. Johnson, uomo dal raro cinismo, aveva rimpiazzato Kennedy, ucciso a Dallas, ed era stato protagonista della lotta per i diritti civili assieme a Martin Luther King. È incredibile, oggi, rievocare quel tempo di soli cinquant’anni fa, un battito di ciglia della storia, quando la più grande democrazia del mondo non riusciva a trovare la condivisione su basilari principi di uguaglianza. E quindi il risultato di oggi non deve sorprendere più di tanto: la ricetta Trump è maggioranza. Non degli Stati Uniti, del mondo.
Nato nel 1971 ad Arzachena ed ivi smisuratamente ingrassato negli anni seguenti, figlio di camionista e casalinga. Titoli appesi alle pareti: laurea in Lettere moderne all'Università di Sassari, iscrizione all'albo dei giornalisti professionisti, guida nazionale di mountain bike, presidente della Asd Smeraldabike, direttore della testata Sardegnablogger. È stato redattore di tre diversi quotidiani sardi: dal primo è stato licenziato, gli altri due sono falliti. Nel novembre del 2014 è uscito il suo primo romanzo, "Cosa conta".
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