La mafia non uccide solo d’estate. La mafia è un cancro che cammina inesorabile tutti i giorni, un verme che striscia negli anfratti sociali, che schernisce, isola, insulta e colpisce. La mafia non uccide solo gli indifesi, sarebbe troppo facile. Colpisce anche i tenaci, quelli con la schiena dritta che non hanno paura di guardare in faccia questi piccoli uomini incapaci di abbracciare la bellezza e la semplicità della vita. Così, il 25 settembre del 1979, alle 8.30 del mattino, mentre si recava al lavoro, mentre cercava di sbrogliare quella matassa intricata di quaquaraquà, venne ucciso Cesare Terranova. Venne ammazzato insieme al suo uomo di scorta, l’unico baluardo contro l’inverosimile. Il maresciallo aveva un nome antico e curioso: si chiamava Lenin, Lenin Mancuso. Gli assassini utilizzarono molti proiettili per uccidere e non contenti, con assoluta vigliaccheria, si avvicinarono al giudice per dargli il colpo di grazia. Per assicurarsi che non potesse più occuparsi di loro. La mafia non uccide solo d’estate. La mafia rende inverno tutto ciò che tocca, rende apparentemente inutile qualsiasi sforzo. Cesare Terranova era, come lo dipinse Leonardo Sciascia, “un uomo candido”. Di un candore che ricordava quello di un bambino. Ed era un uomo che riusciva, nonostante tutto, a stupirsi. Lo avrà fatto anche davanti al suo assassino. Avrà pensato, in quel momento, anche ai suoi mandanti. Era nato nel 1921 e morì a 58 anni. Morì nella sua terra, a combattere per la sua terra, per amore, infinito amore della sua terra. Cominciò a svolgere il mestiere di magistrato nell’immediato dopoguerra: prima come pretore a Messina e poi come giudice istruttore a Patti. Fu però a Palermo che cominciò ad occuparsi di mafia, quando questa parola era nascosta, sconosciuta, mai pronunciata. Erano gli anni Sessanta, gli anni del boom, e Terranova cominciava ad interessarsi di Luciano Leggio e della cosca di Corleone. Furono anni difficili, dove i processi finirono con troppe assoluzioni e pene irrisorie. Erano altri tempi. Esisteva l’insufficienza di prove abbondantemente usata nei tribunali. Troppe assoluzioni, troppa paura, Totò Riina condannato solo per il furto di una patente: una Caporetto per i giudici istruttori. Terranova riuscì, solo nel 1970, a far condannare all’ergastolo Luciano Liggio e continuò la sua battaglia civile anche in Parlamento: dal 1972 al 1979 fu deputato dell’allora Partito Comunista Italiano, seppure eletto come indipendente. Fu segretario della commissione parlamentare Antimafia, una commissione purtroppo permanente in questo paese dove si gridò per troppi anni “la mafia non esiste”. Insieme a Pio La Torre, anch’egli assassinato dai mafiosi, portò avanti una lotta durissima tesa a dimostrare i collegamenti tra mafia e politica. Furono loro a puntare il dito contro Giovanni Gioia, Vito Ciancimino, Salvo Lima. Avevano ragione, ma non riuscirono, almeno in vita, a dimostrarlo. Nel giugno del 1979, terminata l’esperienza parlamentare, Terranova rientrò in magistratura, in attesa di un incarico. Arrivarono prima le pallottole che uccisero lui e il povero Lenin Mancuso. A volere la sua morte furono in tanti, in troppi: Luciano Liggio per primo, poi Michele Greco, Bernardo Brusca, Pippo Calò, Antonio Geraci, Francesco Madonia, Salvatore Riina e Bernardo Provenzano. Quelli che non uccidevano solo d’estate. Quelli che hanno reso questo paese un lungo inverno. Sono trascorsi quarant’anni dalla morte di Cesare Terranova, uomo tenace, acuto e pieno di candore. Un uomo, ucciso da mezzi uomini, omminicchi o, come ricordava il grande Leonardo Sciascia, degli inutili e miseri quaquaraquà.
Nato a Oristano. padre gallurese, madre loguderse, ha vissuto ad Alghero, sposato a Castelsardo e vive a Cagliari. Praticamente un sardo DOC. Scrive romanzi, canta, legge, pittura, pasticcia e ascolta. Per colpa del suo mestiere scommette sugli ultimi (detenuti, soprattutto) e qualche volta ci azzecca. Continua a costruire grandi progetti che non si concretizzano perché quando arriva davanti al mare si ferma. Per osservarlo ed amarlo.
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