Ti assale una compulsione citazionistica quando finisci di gustarti questa “Fuga dall’Asinara” di Mario Lubino, andata in scena al Teatro Civico di Sassari con successo festoso, nel senso di una di quelle feste teatrali un po’ happening dove la gioia del pubblico è tale da essere spettacolo in sé che alla fine fa tutt’uno con quello del palcoscenico. Insomma, una di quelle rare serate indimenticabili a sigla di questa opera prima (almeno ufficialmente) dell’attore Lubino che accompagna la magnifica, antica e gloriosa Compagnia Teatro Sassari in un futuro di fusione tra novità e radici solidamente piantate nel migliore teatro di etnia. Citazioni? Sì, perché davanti a questa farsa perfetta senza vuoti neppure a cercarli con il microscopio, senza una pausa che ti viene voglia di chiederne una per riposarti un attimo tra sorrisi, risate e risatissime per un espediente di scena improvviso o una battuta fulminante, davanti a questo meccanismo così continuo, preciso e inarrestabile come un orologio a mille rubini, mi chiedevo in un vago senso di déjà vu: ma da dove viene tutto questo? E quindi ho pensato al classico, alla pochade di Georges Feydeau e Tristan Bernard, alla farsa di Eduardo Scarpetta e di Peppino De Filippo. Tutta roba che Mario Lubino e la Compagnia Teatro Sassari cucinano da anni e anni con rara maestria, rileggendo e riadattando i classici al mondo piccolo nostro e facendoci scoprire che in fondo, con lingue diverse, è lo stesso di una borghesia parigina ottocento o dei bassi napoletani dove si mangiano pane e amarezza condita di allegria. E invece no. Ci sono tutti i marchingegni e lo stilema linguistico della grande farsa, in questa commedia di Mario Lubinu. E’ naturale. Ma non è la riscrittura di un canovaccio comune. Non è il riempimento di trame grosse usate e riusate in questo genere di teatro. E’ un’opera nuova, originale e moderna nella sua comica rievocazione di inizi anni Sessanta a base di Quartetto Cetra (“Donna, tutto si fa per te”, gracchia il radione all’inizio di ognuno dei tre atti), di Fred Buscaglione (“Il dritto di Chicago Sugar Bing”, per chiudere ogni atto) e di costumi che sono spesso irresistibili caricature di un ricordo vago di abbigliamenti e pettinature. E’ nuova nel farti immaginare quella città che formicola intorno all’appartamento del vedovo Antonio Masia (Mario Lubino) dove si svolge l’azione travolgente dei tre atti. E’ nuova nella estrema, puntigliosa caratterizzazione di ciascuno dei nove personaggi, senza tuttavia che alcuno, compreso il superprotagonista Masia-Lubino, metta in ombra altri. Non c’è, in questa scrittura di Lubino, una sola personalità coincidente con un’altra, un tratto umano ripetuto: ciascuno, nel suo spazio, ha la sua essenza, la sua individualità. Ma tutti in una fusione perfetta, dove esaurito il climax personale della battuta, del breve monologo, della smorfia teatrale, ciascuno rientra con un elegante anticlimax nell’orologio preciso di questa farsa. Insomma, una valorizzazione di individui che creano un’operazione collettiva di rara perfezione. Penso che più che l’opera teatrale prima di Mario Lubino, questa sia la prima che il noto attore sardo firma con nome e cognome. Ho il sospetto che molte delle riscritture dei molti anni della Compagnia Teatro Sassari siano in realtà vere e proprie scritture sue che non ha voluto firmare in considerazione del fatto che il soggetto magari veniva da lontano. Ma qui è suo tutto, dall’idea sino all’ultima delle battute o delle indicazioni sceniche, e quindi si può dire che il presidente della Compagnia debutta come autore. La principale caratteristica di questo allestimento è il modo in cui la regia di Alfredo Ruscitto esalta la scrittura teatrale. Ruscitto rispetta ciò che questa farsa vuole essere nel suo incedere incalzante e non concede un attimo di pausa nelle entrate e nelle uscite, nei movimenti di scena, nelle difficilissime ma necessarie situazioni in cui alcuni attori sostano mentre altri tengono lo spazio spotlight e assegna a chi in quel momento è muto un’animazione comunque teatrale, che sia di gesti o di espressioni, alle volte veri e propri sketch che servono a fare in modo che neppure un angolo del palcoscenico sia vuoto di scena, di movimento. Insomma, un lavoro altamente professionale dove Ruscitto gestisce anche se stesso nei panni di Felice Capone, il camorrista evaso dall’Asinara che piomba nella casa di Antonio Masia dando vita a questa “batteria d’onore”, che sarebbe la parte finale degli spettacoli pirotecnici, quella più incalzante, ma che qui è tale sin dall’inizio. Detto del Lubino autore, il Lubino attore è trascinante. Superlativo in questo personaggio carnale, splendidamente cattivo nelle sue antipatie e nei suoi odi. Spia con un cannocchiale tale Vincenzo Buscha Buscha, vicino di casa della cui vita felice e fortunata non si capacita. E lo rende talmente vivo nella sua inesistenza che quando gli attori si affacciano in proscenio a ringraziare ti chiedi: ma non manca Buscha Buscha? Le due primedonne della compagnia, Teresa Soro e Alessandra Spiga, hanno profuso con apparente nonchalance tutta la loro collaudata bravura, esaltando in realtà le preziose caratteristiche attoriali di ciascuna in questa importante nuova produzione. Teresa Soro, che interpreta l’omonima cognata convivente di Antonio Masia, sfoggia uno stupendo mix di ingenuità e malizia, un’aggressiva padronanza della vita in quella casa borghese dove il padrone è suo cognato vedovo, unita a un desiderio di fuggire lontano che si rivela prepotente quando in casa fa irruzione, con tutto il suo fascino brutalmente esotico, il camorrista evaso. E sono i suoi tentativi di seduzione che danno corpo a una parte importante dell’azione, con Teresa Soro che in maniera eccellente riveste di irresistibile comicità e insieme di trattenuto compatimento questi movimenti da scalcinata sirena. Bravissima è anche Alessandra Spiga, Amelia, moglie dura che sovrasta con la sua personalità il corpulento e succube maresciallo dei carabinieri Renzo Foddanu (un irresistibile Pasquale Poddighe): una recitazione, quella di Alessandra Spiga, meditata, efficace proprio per i toni improvvisi che caratterizzano il personaggio apparentemente di una tranquilla borghese, costretta a salvaguardare tutta l’allure di una moglie dell’Arma, ma in realtà decisa a imporsi contro tutto e tutti. E tra le due primedonne si destreggia alla perfezione la giovane Marta Pedoni, che con la compagnia ha già dato un’ottima prova in “Misera e nobiltà” e qui è parte importante della macchina con il personaggio di Franzischina, figlia di Antonio e fidanzata di Rimundinu. Marta Pedoni disegna con matura padronanza un personaggio non facile: la fidanzata di un imbelle che pur innamorata non deve lasciarsi contagiare da quella mollezza. E riesce a essere amorevole ma libera, vezzosa e affascinante ma padrona di sé, tanto che ti sembra di capire che in fondo ci sia una presa di coscienza dell’inadeguatezza del fidanzato. Il quale è interpretato da un sorprendente Emanuele Floris. Sorpresa non certamente per le sue conclamate capacità attoriali, ma per la meticolosa costruzione di questo personaggio in ogni tono e in ogni mossa: morbosamente malaticcio, quindi probabilmente ipocondriaco, si autoesalta comicamente nell’elenco dei suoi mali, vanta con fiere smorfie la sua sapienza nel campo farmacologico e diventa eroe, alla fine, con uno sberleffo dalla mimica davvero perfetta. E un’altra prova di bravura è quella di Michelangelo Ghisu, comprimario perfetto, un ruolo di fondamentale sostegno, il suo, per una parte importante di questo allestimento. Interpreta Verthurinu, cameriere e pizzinnu trapperi (cioè aiuto sarto): ti accorgi del rigoroso studio che l’attore ha impiegato nel formare ogni tratto del personaggio, compreso il difficile tipo di balbuzie voluto dall’autore che consiste più che altro in un blocco cantilenante nei momenti topici. Insomma, una perizia e una spontaneità che lo porta spesso nell’area dei protagonisti. Bella prova, infine, dell’ottimo Paolo Colorito, professor Notari, severo primario di psichiatria che scambia Antonio Masia per un malato di mente e in una scena di irresistibile comicità lo asseconda quando è fuori di sé per la presenza dell’evaso, ma solo per portarlo in manicomio. Da dove Masia scappa per ricomparire improvvisamente, in un clou magistrale, con una buffa “divisa” dei tempi in cui i manicomi ancora erano aperti e i malati si chiamavano pazzi. E nessuno accusi Lubino di non essere politically correct, perché la maniera buffonesca e genialmente cialtrona in cui quei tempi sono dipinti serve proprio a rivelarne gli angoli bui. Repliche sabato 17 alle ore 21 e domenica 18 alle ore 19.
(La foto è di Marcello Cubeddu)
Nato nel 1951, ottobre (bilancia, ma come tutti quelli della bilancia non crede nell'oroscopo). Giornalista dal 1973. Scrive anche altra roba. Ma gratis, quindi non vale.
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