Oggi la Macchina del Tempo di Sardegnablogger fa uno strappo alla regola e non comincia con la data di un avvenimento. Oggi la Macchina del Tempo parla davvero della macchina del tempo. Infatti, ho trovato la macchina del tempo e si trova in Sardegna. Nel mezzo del camin di nostra vita mi ritrovai in una selva oscura. Peggio. Un canyon, una forra inaccessibile, che si trova… Dove si trova? È strano, dovrei dire di questo posto unico, meraviglioso e inviolato da anni, ma qualcosa mi blocca. Una sorta di luogo dove la dimensione spazio-temporale si dissolve, e si entra in altre epoche. Dove si trova? Nel nord Sardegna. Altre indicazioni vorrei dare, e forse le darò. Ma per dire dove si trova questo profondo canyon, lungo almeno una decina di chilometri, devo riuscire a vincere l’idea che, per la prima volta dopo anni, il luogo possa di nuovo essere trafficato. All’ingresso di questa macchina del tempo si trova, manco a farlo apposta, un ponte. Un ponte di antica fattura, forse di epoca romana. Un buco nero dove la dimensione del tempo scompare, non può che avere, al suo ingresso, un ponte. Un ponte, di solito, collega due strade. Ma qui, di strade, neppure l’ombra. Anzi, il ponte è incassato tra alte pareti rocciose, e solo a fatica si scorgono i resti di un sentiero da ambo i pendii. Da una parte, un sentiero ormai richiuso, ma riconoscibile da grandi massi di sostegno, porta a dei vecchi stazzi che stanno nel pianoro oltre le pareti granitiche della forra. D’altro canto, si intuiscono i segni di una scala che si inerpica nelle pareti granitiche. Più avanti, forse, la traccia di un sentiero. Del resto, sulla vecchia carta topografica, il sito si chiama “Scala de li cavaddi”. Ecco, da questo indizio capiamo che il ponte a guardia di quella forra torrentizia altro non è che un crocevia tra il corso d’acqua tumultuoso e una via di passaggio. Ma passaggio da dove e per dove? Il ponte è stato rimaneggiato e stabilizzato con del cemento di recente. Di recente relativamente, dato che sul cemento stanno ricrescendo le piantine. Allora direi da circa mezzo secolo. Un ponte senza più strade è un crocevia per un’altra dimensione spazio temporale, chiaro. Proviamo a proseguire lungo il torrente, oltre il ponte, sempre più dentro il canyon, ma il cammino, con l’imbastitura d’ordinanza, risulta problematico a causa dei massi di granito resi scivolosi dall’umidità. La forra resterà ancora inviolata. In alto, un volo di colombacci squarcia il suono con violenti battiti d’ali, che si distinguono dallo scrosciare dell’acqua che in rivoli capricciosi scende dalle alture vicine. Il torrente si riposa nel pianoro un tempo paludoso, e riprende il suo corso con la prepotenza di cui solo l’acqua è capace, tanto da squarciare, con la complicità del tempo geologico, montagne di granito alte anche trecento metri. Dovrei informarmi di quel ponte presso gli stazzi del circondario. Si dice che sia davvero di epoca romana, ma non riusciamo a trovarlo censito da nessuna parte. Forse la Soprintendenza sa qualcosa. Chiederò a qualche amico esperto. Ad ogni modo, la ristrutturazione dimostra una sua utilità in epoche recenti. Che utilizzo poteva avere un ponte in quella forra dimenticata da dio e dagli uomini? Mi guardo attorno, la vegetazione è quella tipica di gran parte della Gallura: una boscaglia con le tipiche essenze della macchia mediterranea, ma con prevalenza di erica e corbezzolo, con frammisto l’immancabile leccio e il ginepro, inviso alle capre. E’ il segno di una ricrescita recente, e dunque del passaggio di un generale e massiccio taglio raso, che ha salvato, qua e là, giusto qualche utile sughera. Forse ci troviamo di fronte alle ultime propaggini temporali di quell’epopea, la stessa che in Gallura ha lasciato in cambio stazzi di manifattura toscana e cognomi italiani ormai sardizzati. L’epopea del disboscamento dell’isola ha interessato la Gallura per ultima, fino ai primi decenni del ‘900, addirittura fino al secondo dopoguerra. Ecco l’utilità di quel ponte, allora. Costruito forse dai romani, per congiungere l’antica Viniolae con l’interno, forse con Gemellae, o chissà, è stato riadattato per l’esbosco del legname a dorso di muli o di cavalli, se vogliamo per forza dare retta a quel toponimo così significativo. Congiunge, se vogliamo, epoche distanti millenni, almeno nella mia fantasia di pessimo archeologo. Nei miei pensieri, quel ponte dalle fattezze tipicamente romane, con i segni del disboscamento selvaggio, simboleggia la continuità epocale di una terra utilizzata nel corso del tempo per il prelievo delle sue ricchezze, della sua materia vitale, delle sue risorse. Per cento metri, forse per duecento metri, sono entrato dentro la macchina del tempo. Sono stato scagliato lontano, in epoche diverse, in un luogo dove, come si usa dire in questi casi, “il tempo si è fermato”. Eppure l’acqua continua a scorrere sotto i ponti, anche in tempi come questi di siccità. Il tempo passa, inesorabile, e mi sono chiesto se, per il bel tempo che ancora mi resta, avrò modo di tornare nella forra inviolata, e se mi sarà concesso, un giorno, di percorrerla tutta. Chissà se, sbucando dall’altra parte, di fronte all’orizzonte marino, affaticato dal lungo e difficile percorso, potrò dire ancora di essere la stessa persona e, soprattutto, se attorno a me il mondo sarà lo stesso, e se il calendario segnerà la stessa data.
Fiorenzo Caterini, cagliaritano classe '65. Scrittore, antropologo e ambientalista, è studioso di storia, natura e cultura della Sardegna. Ispettore del Corpo Forestale, escursionista e amante degli sport all'aria aperta (è stato più volte campione sardo di triathlon), è contro ogni forma di etnocentrismo e barriera culturale. Ha scritto "Colpi di Scure e Sensi di Colpa", sulla storia del disboscamento della Sardegna, e "La Mano Destra della Storia", sul problema storiografico sardo. Il suo ultimo libro è invece un romanzo a sfondo neuroscientifico, "La notte in fondo al mare".
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